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BRIGANTI E MASSERIE TRA OSTUNI E MARTINA

di: Angelo PAIS

da: http://www.homofelix.it/socciv/Umanesimo/Brigantaggio.htm#scontri

Il brigantaggio, che da movimento socio-politico, proprio del Mezzogiorno d'Italia, si trasformò in fenomeno delinquenziale, divampò nella Puglia del XIX secolo il giorno in cui ai nostri padri parve giunto il momento di scrollarsi di dosso il peso di un triste retaggio e di inneggiare a quegli stessi ideali di patria e di libertà ai quali tempo innanzi avevano mirato i loro progenitori. Quel giorno, invece, si presentò grigio sin dalle prime luci dell'alba, presago di ambasce e di lutti per le grandi masse popolari. In particolare, il proletariato delle nostre campagne che, fin troppo angariato dalle crescenti vessazioni e dal fatto di non poter in alcun modo rivendicare i demani usurpati, seppe energicamente insorgere e prendere la via del brigantaggio piuttosto che soggiacere all'odiato straniero. E' quanto avvenne anche da noi, tra Ostuni e Martina, e più marcatamente in questi due grossi centri che da millenni si scrutano dall'alto dei loro colli, quasi a rivangare non mai sopite rivalità. Essi che, a buon diritto, vantano nobilissime tradizioni di storia, di arte, di cultura. I fatti politici del 1860 costituirono sì le cause ufficiali della controrivoluzione, ma i motivi più scottanti (quelli, cioè, che racchiudevano in se una carica esplosiva ad alto potenziale) sono, a nostro avviso, da ricercarsi nei risentimenti di odio e di vendetta covati dagli 80.000 e più mercenari i quali allettati dalle verbose promesse che il Re Francischiello avrebbe loro fatto, se mai fosse stato ricollocato sul trono, finirono, irretiti, per sconfinare in ruberie e grassazioni di inaudita ferocia. Ancor più per la fine ingloriosa di un regno, preconizzata, qualche mese prima, dalla morte di Ferdinando II. Questo il vero volto del brigantaggio, che in circa un decennio, con il pretesto di combattere una giusta causa, si eresse a difensore della giustizia, macchiandosi dei più efferati crimini. E di queste imprese furono pieni i giornali, le cronache e le memorie di contemporanei, da Napoli a Lecce. Ecco, in proposito, quanto si legge in un manoscritto del martinese Giuseppe Grassi: "La reazione, battuta nei comuni, non vedendo altra via di scampo, corse ad annidarsi nelle boscaglie e, costretta per ineluttabile necessità a vivere di ricatti e di rapine, assunse forma di brigantaggio. Centinaia di campagnoli, temendo il richiamo e la circoscrizione militare, spinti dalla miseria, dalla mancanza di lavoro e dalle persecuzioni del partito vittorioso, sostenuti dalla fazione legittimista e dalla speranza della restaurazione imminente, allettati dal miraggio dal facile bottino e - perché no? - dalla poesia della vita avventurosa, si diede alla macchia, formo bande armate, rinnovo le gesta del '99". E' la visione esatta di cos'era allora la Puglia, ove formazioni di briganti trovarono rifugio ora nelle grotte di San Biagio o di Abate Melchiorre o di Satìa o di Settarte in territorio di Ostuni; ora nei boschi delle Chianelle nella omonima contrada martinese; ora nelle masserie dell'una o dell'altra giurisdizione. Non pochi ed interessanti sono gli episodi che il Grassi ebbe a tramandarci nei suoi appunti, grazie ai quali oggi è possibile seguire il filo logico e cronologico degli avvenimenti che ebbero come quartier generale parte del territorio martinese e, come zona di operazioni, l'ondulata pianura che da Martina scende per la Valle d'Itria sino ad Ostuni. Tra i fatti memorabili vi è la coalizione delle bande brigantesche che nell'agosto 1862, provenienti in massima parte dalle province di Bari e di Terra d'Otranto, si fusero in un unico corpo belligerante per opporsi ai Piemontesi, le forze armate del Nord che il popolino aveva così denominato e che il governo aveva dislocato al Sud per la repressione delle anzidette bande. Per la prima volta nella storia del brigantaggio pugliese si ebbe in loro la presenza fisica di tutti i capi storici operanti lungo la fascia orientale della Puglia tra tutti, il Sergente Romano, alla autorità del quale era legato il fior fiore della delinquenza nostrana, cui, in ordine di importanza, seguivano: Cosimo Mazzeo di San Marzano, detto Pizzichicchio; Rocco Chirichigno di Montescaglioso, detto Coppolone; Giuseppe Valente di Carovigno, Nenna Nenna; Nicola Laveneziana di Carovigno, detto Il figlio del re; Marco De Palo di Terlizzi, detto La Sfacciatella; Tito Trinchera di Ostuni, figlio dell'integerrimo notar Pietro; Antonio Lo Caso, meglio conosciuto come Il Capraro di Abriola; Francesco Monaco di Ceglie Messapico; Luigi Terrone di Corato; Antonio Testino, detto Il Caporale di Ruvo; infine un giovanissimo, il martinese Ignazio Semeraro, entrato nelle file del brigantaggio a soli 14 anni. Siamo grati all'avvocato Vincenzo Carella (il sanvitese autore di quel prezioso volume sul brigantaggio politico brindisino post-unitario) se c'e dato conoscere altri nominativi di briganti ostunesi e martinesi di secondo piano. Risultano ostunesi, infatti, Vito Blasi, Angelo Saponaro detto Cuttalesa, Angelo Raffaele Quartulli e Francesco Palmisano detto Maluasia. Più numerosi, invece, i martinesi: Francesco Caro, Francesco Cito, Giuseppe Conforti, Agostino Paolo Conserva, Domenico Di Monna, Lorenzo Fragnelli, Vito Lucarelli, Carlo Miola, Giuseppe Semeraro e Vito Tagliente. Nella formazione di questo pseudo esercito furono gli stessi malviventi a stabilire i propri quadri: maggiore era diventato il sergente Pasquale Romano che, sotto lo pseudonimo di Enrico la Morte, venne acclamato comandante in capo; capitani: Pizzichicchio, Nenna Nenna, Il Capraro, Coppolone; primo sergente: Nicola Laveneziana di Ostuni; secondo sergente: Michele Greco di Barletta; caporali: Antonio Testino di Ruvo, Marco De Palo di Terlizzi, Angelo Catanese di Carosino, Oronzo De Pasquale di Fragagnano, Leonardo Filomena di Castellana, Michele Clericuzio di Ariano. La truppa, a quanto riferisce il Grassi, era costituita da 230 uomini a cavallo, armati sino ai denti. Tra questi, Angelo Quartulli di Ostuni e mastro Bruzzerio di Fasano. Un vero esercito, per nulla dissimile da quelli operanti su altri fronti, comandati da figuri non meno celebri di quelli menzionati, come Fortunato Cantalupo, conosciuto come il terrore del Gargano, e Basso Tomeo, stimato il re delle campagne. Fu, per così dire, una guerra lampo, logisticamente studiata, che i banditi sferrarono da settembre a tutto novembre del 1862, su di un triplice fronte che comprendeva i comuni di Brindisi, Grottaglie e Martina, con propositi tattici ben definiti. Movendo infatti in ordine sparso sia dal basso (Brindisi) che dal centro (Grottaglie) e dall'alto (Martina), essi miravano a stringere come in una morsa i paesi e le popolazioni che avrebbero incontrato avanzando. Senza considerare che detta strategia avrebbe loro fruttato un più copioso bottino ed accresciute le loro file con adepti e forzati arruolamenti. Fu comunque, secondo la descrizione del Grassi, una lotta senza quartiere, aspra e disumana per il tragico bilancio: campagne devastate, paesi messi a ferro e fuoco, masserie depredate, bestiame fugato, donne violentate, giovani ed anziani uccisi senza alcuna pietà. Ne vanno dimenticati il saccheggio di Grottaglie, del 27 agosto; il massacro di Cellino, del 23 ottobre; l'invasione di Carovigno, del 21 novembre. Sono misfatti sui quali bisognerebbe indagare più a fondo al fine di stabilire il grado di efferatezza raggiunto dai fautori, i cui crimini tuttavia non rimasero a lungo impuniti per la miseranda sorte che toccò a ciascun capo brigante e relativa ciurma ad opera delle forze governative preposte alla repressione. Il Sergente Romano, uscendo dalle Chianelle con quaranta dei suoi uomini migliori, tento di rifornirsi di vettovaglie e di foraggi dalla masseria Monaci di San Domenico, sita a meta strada tra Martina e Noci. Scoperto, riuscì a portarsi in salvo nelle boscaglie della Difesella in territorio di Acquaviva delle Fonti. Non cosi fu per suo fratello Domenico, che rimase ucciso assieme a Giuseppe Domenico Laveneziana. In quello stesso scontro Angelo Quartulli e Pizzichicchio rimasero feriti; La Sfacciatella ed altri, fatti prigionieri; mentre Giuseppe Valente, Nenna Nenna, venne catturato in Lecce il 22 dicembre 1862 e condannato a vita ai lavori forzati. Ma la capitolazione generale era ormai vicinissima e doveva avvenire proprio nei pressi di Gioia del Colle, paese natale del Romano. Infatti Antonio Lo Caso, che invano aveva tentato di sottrarsi alla cattura nascondendosi nella masseria Mogliano di Castellaneta, venne acciuffato nel gennaio 1863 ed ivi fucilato. In un altro memorabile scontro in contrada Vallata, alle porte della stessa Gioia, finirono tristemente i loro giorni il sergente Pasquale Romano e quello stesso Quartulli, rimasto ferito in altro precedente scontro. Ambedue vennero fucilati nel gennaio del 1863. Il 22 maggio dello stesso anno toccava identica sorte a Francesco Palmisano, alias Malvasia, e quattro mesi dopo a Tito Trinchera, che venne fucilato in Taranto. Chiuderà l'anno Giuseppe Nicola Laveneziana, giustiziato il 18 dicembre 1863. Anche per Pizzichicchio non ci sarà scampo. Nascostosi nel fumaiolo di una non identificata masseria sotto i monti di Martina, aprirà la sfilza dei fucilati nel gennaio 1864. Nell'elenco dei fucilati, apparso in calce ad una relazione pubblicata su Il Salentino, giornale politico leccese dell'epoca, figurano facce nuove, come Giuseppe Legrottaglie di Francesco e di Anna Ventura, di anni 20, da Ostuni; tale Michele Patornelli (ma e sicuramente Patronelli) fu Vito di anni 34, da Martina Franca. Seguono i nomi di altri, appartenenti ai comuni di Grottaglie, Putignano, Latiano, Terlizzi, Corato, Massafra, Francavilla e Noci. Della banda Romano rimaneva ancora qualcuno che, sfuggito alla cattura, se ne ritornava furtivamente al paese natio, come Francesco Monaco di Ceglie e Tito Trinchera di Ostuni i quali, indugiando in quel di Martina, si spostavano in continuazione dalla masseria Tallone a quelle di Pilozzo e Pilano e viceversa, per sottrarsi alla cattura. Ma non cessarono di comportarsi diversamente, come del resto e documentato dalla cronaca de II Salentino del 1863: Il capo-banda Monaco di Ceglie, di unita a sei brigati a piedi, fra i quali Tito Trinchera di Ostuni, figlio del notaro don Pietro, si aggiraoano nella contrada detta Chiobbica, lontana da Ostuni 4 miglia. Nello stesso giorno sorpresero una casina di un'onesto cittadino, liberale e Guardia Nazionale di Cisternino, si impossessarono di due fucili, trassero seco loro il figlio dell'onest'uomo, e dopo averlo menato a poca distanza lo uccisero con molti colpi di stile al petto, una fucilata alla guancia, e gli tagliarono un'orecchia della quale se ne impossesso il capo banda Monaco, e che ne ha fatto empia mostra all'ammassaro della masseria detta Mincuccio, ammassaro che venne pessimamente molestato, e dopo che lo bastonarono, scaricarono varie fucilate agli animali vaccini, e se ne andiederò. Saputasi la nuova in Ostuni, incontanente si mise sotto l'armi buona mano di Guardia Nazionale, 5 carabinieri ed il solerte delegato della Pubblica Sicurezza ed accorsero sopra luogo, ma quanto ivi perlustrarono non vi trovarono traccia. Il giorno 23 aggiustarono il cadavere sa d'un animale, e lo accompagnarono in Ostuni. Quivi giunti, fu proposta da vari notabili di questa Guardia Nazionale fare un guanto per le spese di tutti gli occorrevoli funerali dell'ucciso: tanto ne fu. Gli stessi briganti arrivati appena ad altra masseria detta Cervarolo, di proprietà del sig. Giovane d'Ostuni, si impossessarono di un mandriano, ed armatolo lo menarono con loro per lunga via, e cacciatisi il giorno 23 sulla pubblica strada che da Ostuni fa capo a Ceglie, assalirono una masseria, a due miglia lontana da Ostuni, detta Camastra di proprietà dell'ostunese don Bonaventura Quaranta, uffiziale di Posta. Trovarono nella masseria gli ammassari ed un figlio del sig. Quaranta, a nome don Peppino. A questo si fè la proposta di entrare fra i briganti, ed alle tante renitenze del povero giovane, si muto scena e si impose allo stesso di scrivere al padre per un ricatto di duemila ducati; poi si limitarono a duecento, ed infine a cinquanta per le intercessioni del brigante Tito Trinchera, che si spedirono là là all'uffiziale Quaranta, per la liberazione di suo figlio il quale tenevasi in ostaggio in un bosco. Dopo mezz'ora arrivava la Guardia Nazionale di Ceglie e Carabinieri si scontrarono con i pochi briganti: un carabiniere si slancia e con una fucilata fa cadavere un brigante, non potendosi raggiungere gli altri che se la svignarono. La Guardia Nazionale di Ostuni perlustrava anche per diversa via... Se gravi furono le colpe di cui si macchio il Monaco con siffatti crimini, non meno detestabili furono i fattacci apparsi in altra parte dello stesso giornale, riguardanti cittadini martinesi. Eccone il testo nella stesura originale: Martina 22 dicembre. Ieri 21 due martinesi, di condizione artieri, recavansi a caccia ed incontrarono a quattro miglia da Martina 4 briganti: uno dei due artieri riusciva a fuggire, l'altro, giovane di 22 anni, liberale provato e Guardia Nazionale fu preso dagli infami e seco loro condotto. A tale notizia si mossero Guardia 1Vazionale di Martina e di Cisternino e recatesi alla masseria Montedoro (tenimento di Ceglie), interrogato l'ammassaro, questi si mise alla negativa. La forza rimase ivi tutta la notte, e intimidito l'ammassaro, questi svelò che i briganti erano di cola passati conducendosi l'infelice giovane: più, a richiesta degli stessi briganti si cucinarono maccheroni e per mezzo del fratello dell'ammassaro si portarono in un bosco un miglio lontano dalla masseria. Incontanente la forza volle recarsi nel bosco, ed infatti rinvennero un cadavere, deformato da quattro palle nel petto, ed una lunga ferita che comprendeva la nuca ed il cervello. L 'ammassaro, ed il giovane che portò il cibo ai briganti, sono in arresto poiché si è saputo che costoro sono fratelli dei medesimi briganti. La salma dell'estinto è stata onorata in Martina da Confraternite, dalla Milizia Nazionale, dalla Linea e da molto popolo. Alla flebile cerimonia, alle lagrime che irrigano ogni volto, l'animo si commuove e si rattrista. Possa il Cielo illuminare la Commissione creata dal seno del Parlamento Italiano, all'obietto del brigantaggio. E poi ancora, a proposito della uccisione di uno stimato cittadino martinese, avvenuta la sera del 27 dicembre dello stesso anno: Le lagrime si rinnovano alla rimembranza dei funesti casi che quì si ripetono! Ieri sera don Francesco Paolo Piccoli, di Martina, veniva assalito in compagnia di sua zia (moglie di don Donato Conte, di Luogorotondo) in una masseria da buon numero di briganti, i quali scassinarono il portone, salirono ed imbattutisi nel sig. Piccoli, gli assestarono una sciabolata e gli tagliarono mezza guancia; quindi, tirategli tre fucilate, lo stendono cadavere a terra. La zia ebbe a fuggirsene per un giardino e stette nascosta tutta la notte sul terrazzo di un trappeto. Ahi, sventura! l'ucciso ha lasciato sei figli e la moglie incinta. Quì stiamo compresi di sdegno, ma risoluti di saperci difendere... Sappiate che il patriota sig. Saverio Fanelli, di Massafra, sta raccogliendo buona mano di giovani di Martina, Taranto, Massafra, Palagiano, Ginosa, Luterza, Mottola e Castellaneta e dopo che li avrà agguerriti, capitanandoli vorrà uscire alla caccia dei ribaldi che c'infestano. Una copiosa messe di notizie ci inducono ad una riflessione: le masserie esistenti nelle nostre campagne sono state per i briganti come le classiche oasi per i predoni del deserto. Che, invero, quelli sarebbero rimasti fiaccati prima del tempo se mai fossero stati privati dei necessari mezzi di sussistenza, nonché dell'uso del cavallo, quale insostituibile mezzo di locomozione; o della possibilità di reperire facilmente cibarie e foraggi; o di riparare sotto un tetto sicuro; o, non ultimo, di valersi di luoghi idonei per l'appostamento e l'avvistamento. Tutto ciò, naturalmente, in vitrù dell'ampia disponibilità che essi rinvenivano ad ogni pie sospinto nelle masserie. E' come dire che han potuto muoversi in un ambiente ideale che ha consentito loro di strafare nei modi più insani e tali, comunque, da tenere impegnato l'Intendente di Terra d'Otranto nell'istruzione di un elevato numero di processi politici a carico di criminali che nella totalità finirono davanti al plotone d'esecuzione. Ce ne dà notizia in anteprima la dottoressa Michela Pastore, direttrice dell'Archivio di Stato di Lecce, la quale, in una recente opera edita a Galatina da Mario Congedo (Momenti e figure di storia pugliese. Studi in memoria di Michele Viterbo, a cura di Marco Lanera e di Michele Paone), ha pubblicato il repertorio dei processi esistenti in quell'archivio.

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Del repertorio dei processi di Corte d'Assisi del Tribunale di Lecce ne riporto alcuni tra i più significativi, con cui vengono ricordati fatti eclatanti avvenuti nei comuni di Ostuni, Martina e paesi viciniori. Processi politici furono anche intentati nei confronti di liberi cittadini ritenuti colpevoli di propagandare, in pubblico ed in privato, idee di libertà.
Martina.

* Processo n. 265/1861, per i seguenti capi d'accusa: a) Eccitamento di guerra civile tra gli abitanti di una stessa popolazione il 17 febbraio 1861 armando e inducendo ad armarsi gli uni contro gli altri, a carico di: Livia Magno, don Francesco Corrente sacerdote, Vito Corrente, Francesco Fumarola, canonico Franceco Paolo Aquaro, don Pasquale Guglielmi sacerdote e molti altri. b) Ferite gravi pericolose di vita nelle persone di Pietro Semeraro e Giuseppe Chirulli, a carico di Francesco e Carmela Fumarola. c) Asportazione di armi vietate, a carico di Michele Palmisano ed altri.

* Ceglie e Martina-Processo n. 172/1862, per i seguenti capi d'accusa: a) Complicità in associazione di malfattori che grassavano le campagne di Ceglie, nel novembre 1862, a carico di Arcangelo Ciniero, Domenica Grazia Gatti, Vito Santo Russo. b) Corrispondenza e somministrazione di munizioni ai briganti il 23 gennaio 1863 in Ceglie e Martina, a carico di Giuseppe Elia, Giovanbattista Elia, Giacomo Leo. Martina - Processo n. 433/1864: per grassazione in tenimento in Martina, a carico di Gabriele Cifrica Esposito, Giacomo Chirulli ed altri.

* Grottaglie e Francavilla - Processo n. 853/1862, per i seguenti capi d'accusa: a) Organizzazione di banda armata per cambiare la forma del governo e portare la strage e la devastazione nei comuni dello stato, a carico di Cosimo Mazzeo alias Pizzichicchio di San Marzano, Francesco Mazzeo, Nicola Demuci, Giuseppe Leonardo Zinganella, Francesco Caputo, Martino Sforza, Vito Michele Bucci, Gioacchino Greco, Vincenzo D'Adamo, Nicola Lombardi, Angelo Catanese di Carosino, Ciro Antonazzo di Grottaglie, Angelo Ventrella di Ceglie e molti altri. b) Associazione come sopra. In più attentato commesso la sera del 17 novembre 1862 nel comune di Grottaglie, essendo rimasti feriti Francesco Maggiulli ed altri, il primo dei quale ne ebbe la morte e rapinate, incendiate e distrutte le proprietà del suddetto Maggiulli e altre, a carico di Antonio Achille, Arcangelo Camassa, Oronzo Caramia, Lucia Pugliese, Domenico Caforio, Domenico Annichiarico, Emmanuele Manigrasso, Giorgio Russo, Giacomo Monaco e molti altri.

* Ceglie - Processo n. 261/1861: per associazione e banda armata a oggetto di delinquere contro le persone e le proprietà, a carico di Donato Urso, di Ceglie.

* Carovigno - Processo n. 76/1861: per attentato e cospirazione per oggetto di cambiare l'attuale governo provocandone discorsi e grida la gente il 2 aprile 1861, a carico di Angelo Raffaele Carella e Abramo Aionna, ambedue di San Vito. Locorotondo e Ostuni - Processo n. 592/1863 per i seguenti capi d'accusa: a) Grassazione in agro di Locorotondo nei giorni 14 e 15 febbraio 1863, a carico di Giovanni Battista Santoro di Cisternino. b) Associazione di malfattori capitanata da Tito Trinchera. c) Omicidio con premeditazione in territorio di Ostuni la notte tra il 21 e 22 dicembre 1862, a carico di Trinchera Tito di Ostuni, Monaco Francesco di Ceglie, Giambattista Santoro e Domenico Mastromarini, ambedue di Cisternino.

* Ostuni - Processo n. 595/1864: per discorso in pubblica adunanza contenente censura delle istituzioni dello stato e tendente ad eccitare il malcontento, nel duomo il 26 maggio, a carico di don Biagio Roma, sacerdote.

* Ceglie - Processo n. 797/1869: per tentativo di grassazione di notte tempo e in casa abitata, la notte del 18 novembre 1868, a carico di Pietro Pugliese, Rocco Chirico alias Cachino, Carlo Vincenzo Parigi Esposito alias de Nini, tutti di Ceglie.

Dal repertorio dei processi di giudicati d'istruzione del Tribunale di Lecce, traiamo i sottonotati casi.

* San Vito e Ostuni - Processo n. 7/1862, per i seguenti capi d'accusa: a) Banda armata avente per oggetto di fare attacco o resistenza contro la forza pubblica e di commettere altri crimini (brigantaggio). b) Involamento di corrispondenza postale e di due cavalli inservienti alla posta, avvenuta la notte del 2 e 3 novembre 1862 sulla strada pubblica tra San Vito ed Ostuni, e segnatamente alla discesa Colacurto, a carico di autori ignoti che formano parte della suddetta banda.

* Ostuni - Processo n. 59/1864: per grassazione commessa in pregiudizio di massari la notte del 13 e 14 aprile 1864, a carico di Giuseppe Prudentino, meglio liquidato per Giuseppe Calo, ed altri tre ignoti individui, due dei quali parlavano il dialetto cegliese ed uno il dialetto ostunese.

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L'avere inteso rimembrare tragici avvenimenti, attraverso precise documentazioni d'archivio, significa aver voluto toccare con mano la realtà del passato e riviverne i momenti storici più salienti. E il brigantaggio, infatti, non è che uno di quei momenti all'ombra dei quali stanno ancora oggi le poche masserie sopravvissute, reliquie viventi di una civiltà che in definitiva ci appartiene e ci nobilita.

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