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GIUSEPPE GARIBALDI

EROE ? TRADITORE? MERCENARIO?

di: Salvatore Riggio - Caltanisetta -

da: http://www.maccarone.supereva.it/gari.htm?p

Sin dalla nostra prima infanzia e poi durante tutti i nostri corsi scolastici abbiamo sempre appreso dalla storiografia ufficiale, scritta dai vincitori, che Garibaldi è stato il nostro più grande eroe dell'epoca moderna, l'eroe dei due Mondi, il nostro più grande benefattore perchè ci ha liberati dalla tirannide borbonica sempre descritta nei libri scolastici (e non) come l'Orco delle favole perennemente insaziabile di carne umana. Si è detto che la Storia la scrivono i vincitori e bisogna aggiungere che i vinti hanno sempre torto. Vae victis! Essendo ormai trascorsi più di 140 anni dall'invasione garibaldina le passioni si vanno smorzando, la realtà ci fa sfumare la favola tramandata dai nonni, l'idolo acquista la sua giusta dimensione ed in una parola il senso critico prende il sopravvento sul mito e sull'apologia ad ogni costo. In queste mie sommarie considerazioni che seguono non intendo parlare dell'uomo Garibaldi tenuto sempre nascosto dalla storiografia scolastica ufficiale e così non approfondisco il fatto che il nostro beneamato eroe nel Sud America si rese colpevole di furto di cavalli e per punizione gli mozzarono l'orecchio destro tanto che fu costretto a fare il capellone per tutta la vita al fine di nascondere una così infamante mutilazione, come pure mi limito appena ad accennare ai suoi sfortunati amori: In primo luogo con la diciottenne uruguayana Anna Maria Ribeiro da Siva (meglio conosciuta come Anita) coniugata con Manuel Duarte de Aguiar, che lei abbandonò non appena conobbe il nostro Garibaldi, che successivamente sposò alla morte del marito a Montevideo nel 1842, ed in secondo luogo con la ricchissima marchesa Raimondi, che egli, dopo le nozze trovò incinta da altro uomo. Tutti questi fatterelli umani ed altri che per brevità tralascio, potrebbero avere rilevanza in uno studio psicologico del personaggio per capirne l'intima essenza, ma non trovano giustificazione nel tema che mi sono proposto di trattare, che è quello riguardante l'ombra del tradimento sussurrato da pochi che aleggia sulla luminosità eroica esaltata dai vincitori e perciò dai molti al riguardo della battaglia garibaldina di Calatafimi combattuta il 15 maggio 1860, perciò tralascio ogni altra considerazione ed entro subito in tema facendo alcune premesse indispensabili per meglio lumeggiare i fatti.

LA VITTORIA DEI MILLE A CALATAFIMI FU FRUTTO DI PURO EROISMO O VI PESA L'OMBRA DEL TRADIMENTO

Sono passati ben 140 anni dall'annessione della Sicilia al Regno del Piemonte dopo la ben riuscita invasione garibaldina sostenuta dalla Potenza inglese e dopo le due più importanti e cruente battaglie combattute sul colle di Pianto Romano di Calatafimi ed a Milazzo, ho notato che in questi ultimi tempi si è incominciato a discutere ed a scrivere dell'impresa garibaldina in senso critico sino al punto di smitizzare il personaggio Garibaldi e la sua più importante impresa che va sotto il nome "dei Mille". La battaglia di Calatafimi pur nella modestia delle sue dimensioni nell'impresa dei Mille ha avuto una importanza eccezionale perché ha letteralmente sbarrato le porte dell'invasione consentendo a Garibaldi ed alla sua banda di occupare in poco tempo la città più importante della Sicilia, quale era ed è Palermo, nonché tutta l'attuale provincia di Trapani e parte della provincia di Palermo senza trovare alcuna consistente resistenza. Dal punto di vista psicologico, poi, la vittoria di Calatafimi non solo rincuorò le truppe garibaldine, ma fece apparire le stesse agli occhi del popolo come invincibili e addirittura protette da Dio e dai Santi, nonostante si trattasse di uomini dichiaratamente anticlericali, atei e massoni. L'11 maggio 1860 avvenne lo sbarco a Marsala dei Garibaldini, ubriachi d'avventura, senza trovare la benché minima resistenza tanto che possiamo paragonare il detto sbarco all'arrivo di una allegra brigata di turisti in vena di godersi la splendida primavera siciliana. I marsalesi li accolsero con estrema diffidenza tanto che il garibaldino Giuseppe Bandi ebbe, poi, a scrivere in una sua cronistoria:"Fummo accolti dai marsalesi come cani in chiesa". Da bravi invasori i garibaldini corsero subito a mettere le mani nelle casse della tesoreria comunale, ma trovarono pochi spiccioli così come ebbe a scrivere lo scrittore garibaldino Ippolito Nievo perché i previggenti marsalesi avevano provveduto a mettere in salvo il tesoro comunale. Garibaldi avendo trovato a Marsala la più gelida accoglienza nella più assoluta indifferenza, prese la via per Salemi dove aveva spedito il La Masa in esplorazione e dove ovviamente i "patrioti" gli avevano assicurato accoglienza. Giunto nel feudo Rampingallo si fermò a bivaccare nella masseria del salemitano Alberto Mistretta e il mattino del 13 maggio fece ingresso con tutto il suo seguito a Salemi, dove trovò calorosa accoglienza dalla maggior parte dei "Cappeddi" salemitani, che già l'aspettavano come da copione e che avevano preparato "le Coppole" cioè a dire il popolino a subire questa ennesima invasione con la promessa che sarebbe stata abolita l'odiosa tassa sul macinato e che i nuovi arrivati avrebbero assicurato una vita migliore per tutti. Garibaldi a forza s'insediò nel palazzo del riluttante buon marchese Emanuele di Torralta, che dovette fare buon viso a cattivo giuoco, così come mi hanno riferito tantissimi vecchi allorquando io ero ragazzino. Mi è stato anche riferito dalle stesse persone che altrettanta cosa fu costretto a fare il sindaco del tempo, don Tommaso Terranova, che comprensibilmente avendo giurato fedeltà ai Borboni, si aspettava una violenta repressione nel caso di insuccesso dell'invasione. Rincuorato dall'accoglienza salemitana e senza incontrare alcuna ombra di resistenza il nostro "Eroe" il 14 maggio compie a Salemi un gesto platealmente eclatante avente chiaramente lo scopo di dare una parvenza di legittimazione alla sua impresa, e si autoproclama dittatore in nome di Vittorio Emanuele su invito di non ben precisati "notabili" ed in esecuzione di altrettante fantomatiche deliberazioni di imprecisati "Comuni liberi dell'Isola". Ovviamente fece razzia dei denari delle casse comunali e comodamente riorganizzò tutte le sue sparute forze nella certezza che da un giorno all'altro doveva comunque avvenire lo scontro con l'esercito borbonico, che inspiegabilmente dopo ben quattro giorni dallo sbarco dei Mille in territorio siciliano non si decideva ancora ad andargli incontro prendendosela molto comodamente come se si trattasse non di una invasione nemica, ma di una pacifica delegazione straniera in visita alle contrade siciliane. Quest'ultima spontanea e naturale considerazione dà la sensazione che sotto sotto ci fosse qualcosa di poco chiaro e addirittura di losco per come gli eventi successivi lasciano supporre. Il nostro "Eroe" la mattina del 15 maggio parte da Salemi con tutta l'accozzaglia della sua truppa, male armata e malamente addestrata perché costituita da giovani raccogliticci del Nord Italia, animati, però, da sconfinato spirito d'avventura e da sacro furore patriottico, nonché affascinati e plagiati dal carismatico loro capo Giuseppe Garibaldi, e si avvia per la strada che porta a Vita (TP). Attraversa tale paesino senza incontrare ostacoli ed incomincia a scendere nella strada a valle, che poi sale verso Calatafimi. Finalmente lo Stato Maggiore dell'Esercito borbonico dà ordine al generale brigadiere Francesco Landi, che era acquartierato ad Alcamo, di andare incontro agli invasori. Il 14 maggio il Landi lascia Alcamo con le sue truppe e inspiegabilmente, invece di proseguire verso Salemi dove avrebbe senz'altro trovato i garibaldini impreparati, giunto nei pressi di Calatafimi si ferma e fa riposare i suoi soldati mandandone un pò in ricognizione verso Salemi. Nel frattempo il Maggiore Sforza che comandava l'8° Battaglione sistemò i suoi uomini sul colle chiamato Pianto Romano posto di fronte alla strada che da Vita porta a Calatafimi. Verso le ore nove del 15 maggio Garibaldi con i suoi uomini sopraggiunge ed alla vista delle truppe borboniche collocate in alto in posto strategico, si fermò e per alcune ore rimase indeciso. Alla fine verso mezzogiorno o giù di lì i garibaldini lasciano la strada e si buttano a destra nella campagna. Il Maggiore borbonico Sforza di sua iniziativa e senza avere ricevuto ordine di attaccare ingaggia battaglia contro il nemico. Non mi dilungo più a descrivere le fasi della scaramuccia, perchè di questo si è trattato e non di una vera battaglia, ma è certo che i garibaldini stavano per essere sopraffatti allorquando ai Borbonici vennero meno le munizioni. Venne subito mandato un portaordini al gen. Landi con preghiera di mandare munizioni e forze fresche per completare la vittoria. Il Landi non solo fece orecchio da mercante, ma si permise, poi, di rimproverare aspramente il Magg. Sforza, che si era permesso di attaccare battaglia senza avere ricevuto ordini in tal senso. Quindi ordinò la ritirata e gli increduli soldati borbonici, costretti ad abbandonare vergognosamente il campo, giunti a Calatafimi e cioè a dire a pochi passi più indietro dal campo di battaglia, trovarono al bivacco altri due battaglioni dotati di cannoni, di fucili e di cavalli. Lo svolgimento dei fatti anzidetti è riportato al paragrafo 27 della "Storia delle Due Sicilie" scritta da Giacinto De Sivo, pubblicata a Trieste nel 1868 e cioè a dire nella quasi immediatezza degli avvenimenti che portarono all'annessione della Sicilia al Piemonte ed alla caduta della dinastia dei Borboni. Nel detto libro si legge ancora che parecchi soldati, ovviamente avendo toccato con mano l'insensato comportamento del Landi, chiesero a gran voce di combattere, ma questi frenò i più ardimentosi con la minaccia di fucilazione. Quindi il Landi con due battaglioni ancora freschi al bivacco e con un altro provato dalla battaglia, ma impaziente di continuare la lotta, ordina la ritirata verso Palermo, mentre semmai avrebbe dovuto più sensatamente riorganizzare le forze sulle alture di Alcamo e chiedere urgentemente ulteriori rinforzi a Palermo. I numerosi storici apologetici del fatto d'armi mettono in risalto che i Mille (che poi mille non erano) furono sostanziosamente aiutati dalle squadre siciliane di volontari e da un gran numero di persone rimaste a monte, alle spalle dei garibaldini, le quali diedero l'impressione ai Borbonici che si trattasse di un numeroso esercito pronto ad intervenire in aiuto dei combattenti. Va subito rilevato che le squadre siciliane scese in campo in aiuto di Garibaldi erano complessivamente costituite da qualche centinaio di persone e il Landi da buon soldato doveva ritenere rettamente che si trattava di gente malamente armata e sprovvista di tecnica militare di guerra, trattandosi di gente raccogliticcia. Le persone rimaste a monte erano qualche centinaia di curiosi ed il Landi aveva tutta la possibilità di accorgersene. L'Esercito Borbonico era in una posizione strategica favorevolissima perché posto a monte, mentre i garibaldini erano in una posizione sfavorevolissima perché si trovavano a valle. Quanti uomini avessero partecipato con esattezza al fatto d'armi nei due contrapposti schieramenti si sconosce. Secondo gli studiosi più accreditati pare che i Borbonici fossero di poco superiori ai 2.000 ed i garibaldini con le squadre siciliane di poco inferiori ai 2.000. I garibaldini certamente combatterono con tutto l'ardore possibile perché sapevano che in caso di sconfitta avrebbero fatto la stessa fine di Carlo Pisacane con tutti i suoi trecento. L'Esercito borbonico era indubbiamente meglio armato, era costituito da uomini che facevano di professione il militare, si trovava in una posizione strategica avvantaggiata, aveva alle spalle una riserva di 1172 soldati trattenuti in Calatafimi, che potevano guardare le spalle ai combattenti e che inspiegabilmente non intervennero in aiuto allorquando il Maggiore Sforza chiese l'invio di munizioni ed ottenne, invece, l'ordine di ritirarsi; il Landi stranamente non seguì di persona, per come doveva, gli sviluppi dei fatti tanto che non diede l'ordine di attaccare e che questo venne dato dallo Sforza di fronte all'evidenza della necessità e per questo venne rimproverato aspramente dal Landi allorquando costrinse lo Sforza alla ignominiosa ritirata. I fatti stessi dicono a gran voce che qualcuno tradì. Conoscendo bene i luoghi e coordinando nella mia mente alcune delle considerazioni sopra esposte quali indubbia superiorità tecnica ed anche numerica delle forze del Regno delle Due Sicilie, nonché la posizione orograficamente svantaggiata dei garibaldini è stata per me inspiegabile sin dai banchi di scuola la sconfitta subita dalle truppe regie. Il 2 febbraio 1861 il Landi improvvisamente morì e subito dopo la sua morte si diffuse la voce, ripresa dalla prestigiosa rivista dei Gesuiti "La Civiltà Cattolica", da "Il Cattolico" di Genova e poi dal De Sivo nella sua Storia anzidetta, dal Buttà e da altri, che lo stesso giorno della sua morte, il Landi si era recato al Banco di Napoli per riscuotere una fede di credito di 14.000 ducati, che trovò, invece, essere di appena 14 ducati e tra l'altro alterata e falsa nella firma. Il crepacuore troncò subito dopo la sua esistenza. Il figlio del Landi a nome Michele, che tra l'altro anche lui aveva fatto la campagna di Sicilia nell'esercito borbonico, in data 1° ottobre 1861 scrisse da Bologna una lettera al generale Garibaldi, infiorata di amor patrio italico (il che mi fa sospettare), con la quale bolla di calunnia la diceria dei 14.000 ducati, difende l'onorabilità del suo "amatissimo genitore" e poi butta una frase che mi lascia allibito e che testualmente trascrivo: "Generale! se mio padre si trovò suo avversario a Calatafimi fu una mera fatalità; ché un ufficiale, il quale per i fatti politici del 1820 si era trovato escluso dai ruoli militari, non poteva restarsene insensibile alla vista di una nazione, che rivendicavasi a libertà". Ed effettivamente chi legge non resta insensibile perché percepisce subito da tale confessione il tradimento! L'umilissimo e devotissimo servitore Michele Landi - Luogotenente al 9° Regg. Fanteria, così come si sottoscrive nella missiva anzidetta, dopo pochissimi mesi dai fatti aveva dimenticato il giuramento di fedeltà suo e di suo padre al Regno delle Due Sicilie e si era già intruppato sotto le nuove bandiere dei Savoia. Viva chi regna è il motto dei più. Quindi la lettera prosegue con questa stupefacente domanda: Chi più di Lei può smascherare sì vile, sì impudente calunnia?. E no, caro Michele; è encomiabile la difesa dell'onorabilità del tuo genitore perché è sempre sacrosanto dovere dei figli farlo, ma non dovevi rivolgerti al corruttore, sia pure presunto, per avere conferma di quanto tu andavi sostenendo. E' estremamente ovvio che il corruttore non può confessare la corruzione di cui è stato autore perché incolperebbe se stesso e cadrebbe nella più completa disistima. Ed infatti Garibaldi con la sua lettera del 1° novembre 1861 da Caprera rassicurò il Landi junior che si trattava di calunnia e che suo "padre a Calatafimi e nell'entrata su Palermo fece il suo dovere di soldato". La risposta era scontata: Non poteva essere che questa. A questo punto viene spontaneo chiedersi: Ma perché Michele Landi non si rivolse al Banco di Napoli per avere una netta e chiara smentita di quello che egli chiama calunnia essendo questo il solo che avrebbe potuto smascherare i presunti calunniatori? Perché il Banco di Napoli chiamato così pesantemente in causa non intervenne con una pubblica smentita? Perché la famiglia Landi non agì giudizialmente contro La Civiltà Cattolica ed il Cattolico di Genova, definiti da Michele Landi nella lettera anzidetta giornali austro-clericali-borbonici, per tutelare l'onorabilità del suo congiunto la cui memoria veniva così pesantemente infangata? Non risulta che tutto ciò sia stato fatto o che sia avvenuto, pur essendo stata questa la strada giusta da seguire. Ma tutte queste storie a chi potevano interessare? Ai vincitori certamente no (basta chi t'appi e comu t'appi t'appi dice un proverbio siciliano). I vinti riottosi furono messi pesantemente a tacere. La stragrande maggioranza, come sempre avviene, cercò di acclimatarsi sotto i nuovi padroni e di fare dimenticare il proprio passato.

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