| Brigantaggio Locale | Documenti | Personaggi | Briganti | Storia | Bibliografia | Recensioni | Link | Libro degli Ospiti | Home |

 

BRIGANTAGGIO A CASALCIPRANO

da: http://go.supereva.it/casalciprano/Storia/brigataggio.htm?p

Il malcontento del popolo si faceva già sentire fin dai tempi della rivoluzione del 1799, ma se allora si sperava nei cambiamenti che stavano avvenendo, dopo l'Unità del Regno d'Italia, vedendo che le cose non migliorarono affatto, in tutto il Meridione esplose il cosiddetto fenomeno del brigantaggio. Contadini e pastori locali, per carattere ribelle, per spinte di rivolta o perché non più disponibili alla passiva sottomissione, sorretti da un istinto delinquenziale, dandosi alla macchia rubavano, ricattavano, estorcevano ed uccidevano senza pietà. Per quanto riguarda le terre molisane, sul Matese, sulla montagna di Frosolone, nelle boscaglie del medio Trigno e del territorio di Trivento, operavano numerose bande di briganti che terrorizzavano le popolazioni indifese e, con prepotenze, minacce e intimidazioni, maltrattavano i piccoli e grandi proprietari locali, i cosiddetti "galantuomini". Come gli altri paesi, anche Casalciprano ebbe i suoi briganti, i più famosi, sicuramente al seguito di altri, furono Costanzo Lombardi, Pasquale Picciano, detto Rosciuolo, Gaetano Policella, fucilato a Castropignano e Gaetano Corsilli. Per proteggere le loro terre i galantuomini cercavano in ogni modo di eliminare l'elemento di rischio, spesso con tacito consenso, ma anche con l'arresto o, addirittura, con l'uccisione. Drammatico epilogo di questo scontro fu la morte del brigante di Casalciprano, Costanzo Eugenio Lombardi, avvenuta per ordine del galantuomo locale Nicolangelo Antonecchia.

ANALISI STORICA DEL FENOMENO DEL BRIGANTAGGIO

di Antonio Venditti - da: http://go.supereva.it/casalciprano/Storia/brigataggio.htm?p

Dice l’arciprete Tirabasso nel suo libro: Il brigantaggio borbonico, negli anni susseguenti al 1860, infierì anche in queste contrade e Casalciprano ebbe i suoi banditi al pari di altri paesi. Tre furono i principali briganti certamente al seguito di altri: Pasquale Picciano alias Rosciuolo, Gaetano Policella fucilato in Castropignano e Gaetano Corsilli. Negli anni successivi il brigantaggio fu sempre combattuto dal governo liberale, ma non riuscì mai ad estirparlo completamente e sopravvisse nel Napolitano sotto forma della camorra ed in Sicilia col nome dl Mafia. Il Regime fascista è riuscito a stroncare nettamente in poco tempo questo residuo di barbarie, questa piaga sociale, ed oggi le popolazioni rurali possono vivere sicure e tranquille anche nelle più lontane campagne dai centri abitati. Certamente non poteva immaginare l’Arciprete che "questo residuo di barbarie" come lui la chiama, esiste ancora oggi in alcune regioni italiane. Il fenomeno del brigantaggio, già presente nell’Italia Meridionale esplose dopo l’Unità d’Italia. I contadini meridionali avevano aiutato Garibaldi all’epoca della spedizione dei Mille, con la speranza che l’unificazione dell’Italia li liberasse definitivamente dall’oppressione dei grandi proprietari terrieri. Ma, dopo il 1861, le cose andarono diversamente da quanto da loro auspicato: l’abolizione delle dogane interne inondò il Mezzogiorno di merci prodotte altrove a prezzi più bassi così, molti artigiani e contadini che lavoravano in casa articoli artigianali, si trovarono di colpo senza lavoro o impoveriti. I grandi proprietari terrieri, al contrario, capirono subito che se loro avessero pagato poco i contadini avrebbero potuto vendere al Nord, a prezzo più basso, le derrate alimentari. Ma, quel che convinse definitivamente i latifondisti a passare dalla parte della monarchia dei Savoia, fu la certezza che questi li avrebbero aiutati contro la "ribellione dei contadini" che iniziavano a protestare contro la leva obbligatoria che portava via dai campi i giovani, contro l’abolizione dei secolari usi comuni delle terre demaniali per i pascoli, la caccia e la raccolta della legna, a tutto vantaggio dei liberali e dei "galantuomini" sostenitori dei Savoia. Si formarono così bande armate in cui confluirono contadini, ex militari borbonici e molti di coloro che avevano perso il lavoro in seguito alla distruzione del Regno delle Due Sicilie. Ai briganti diedero appoggio molti religiosi (il papa considerava i Savoia una potenza ostile che avevano circondato lo Stato della Chiesa) e la corte borbonica che da Roma, dov’era in esilio, fomentava la rivolta nella speranza di un loro ritorno sul trono di Napoli. I braccianti, alle disumane condizioni di lavoro, sostanzialmente servi del proprietario terriero, con salari da fame, costretti a "prestazioni" di lavoro non retribuite, maturarono contro la classe dirigente un odio violento e una forte volontà di vendetta, preferirono così diventare "briganti" con la speranza che la rapina, l’estorsione e il furto fruttassero loro quella ricchezza che l’onesto lavoro non gli garantiva. Il brigantaggio divenne così la protesta dei poveri e sfruttati contro una situazione intollerabile. Le bande si rifugiavano sui monti, nascosti in boschi impenetrabili, a volte seguiti dalle donne che oltre alla cucina, partecipavano ai combattimenti, spesso assaltavano piccoli centri, massacravano i notabili liberali, incendiavano gli archivi comunali e, dopo aver razziato quanto gli era necessario, si ritiravano di nuovo sulle montagne da dove poi attaccavano altrove. Contro queste bande lo Stato sabaudo mobilitò l’esercito, 163.000 uomini, in prevalenza bersaglieri e reparti di cavalleria. Quando la repressione si concluse, nel 1865, i briganti uccisi erano 5.212, gli arrestati 5.044 e i condannati a oltre 2.000. Il numero complessivo dei morti delle due parti eguagliò quello dei caduti per le tre guerre d’indipendenza. In Sicilia però, siccome le forze dello Stato erano scarse, i proprietari terrieri accettarono di essere difesi da una "forza armata illegale" la MAFIA, che si era sviluppata tra i "gabellotti" i quali affittavano i grandi latifondi e li davano da lavorare a mezzadri, obbligati a versargli metà raccolto, oppure li facevano lavorare come salariati. La mafia intimoriva questi miseri lavoratori facendogli accettare condizioni di fame con la minaccia delle armi ma, nello stesso tempo, la mafia minacciava anche i grandi proprietari perché non richiedessero affitti troppo onerosi, lo strumento di persuasione usato era la: "lupara"; altre organizzazioni malavitose si svilupparono, in Calabria la "Ndrangheta" e in Campania la "Camorra". Proprio perché la mafia si rivelava uno strumento efficace contro le ribellioni popolari, fu tollerata dalla classe politica inoltre, queste organizzazioni non si opponevano allo Stato ma ne cercavano la protezione corrompendo gli uomini politici, questi i motivi del loro rapido successo e radicamento sul territorio. Non aveva però torto don Angelo Tirabasso perché, durante il Fascismo, veramente il fenomeno mafioso apparentemente regredì, infatti nel 1923 ebbe inizio la famosa "operazione Mori" attraverso la quale il fascismo tentò di sconfiggere la mafia ripristinando anche la pena di morte. Non vi riuscì: corruzione, paura, violenza, rimasero latenti, ma vive. Il prefetto Mori, funzionario piemontese, rigido, inflessibile, inattaccabile dalla pietà ed incorruttibile, non eliminò, infatti, le cause, bensì le sole persone fisiche dei mafiosi. I successivi 50 anni di "libertà" sono stati segnati da stragi di innocenti rimaste impunite, omicidi di magistrati e uomini politici onesti ed efficienti ma la colpa è stata di tutti noi che pur di ricevere il "favore" che ci stava più a cuore, abbiamo assecondato un esercito di colletti bianchi, portaborse, faccendieri, ladri, traditori e assassini. Su quali alleati hanno potuto contare Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Mattarella, Pio La Torre, Chinnici, Cassarà, Montalto, Rostagno, Montana, Libero Grassi, Rosario Livatino ed una catena interminabile di caduti dimenticati? A morire si è sempre soli, ma chi è morto in "democrazia" e per la democrazia, è ancora più solo. I giovani, i più vulnerabili, nel dilagare della corruzione e della violenza manovrata, sentono il bisogno di porre domande sempre più insistenti:

" Perchè non si fa chiarezza sui grandi delitti politici?"

" Che cosa ha fatto lo Stato in questi anni contro la mafia?"

" Che rapporto c'è tra mafia e politica?"

" Che cosa possiamo fare noi giovani contro la mafia e la delinquenza dilagante?"

Per rispondere è necessaria una scuola coraggiosa, al passo con i tempi, che esca dall'isolamento e dall'immobilismo, che sia veramente una comunità che interagisca con la più vasta comunità sociale, che educhi all'analisi della realtà e alla comprensione di essa. "La mafia non teme il carcere quanto la scuola...., non teme il giudice quanto il maestro". Certamente il fenomeno "illegalità" è oggi molto sentito e con la buona volontà ed il coraggio individuale e di tutti forse riusciremo a combattere ed a vincere sulla "violenza, il sopruso e la prepotenza", riusciremo a spuntarla su questa minoranza che non vuole rispettare le regole del gioco, vogliamo credere nelle parole di G. Falcone:" La mafia è un fenomeno umano e, come ogni fenomeno umano, avrà un inizio ed una fine".

INDIETRO