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ADERNO' DAL 1820 AL 1900

da: http://www.cedss.it/adrano/storia/lecinquegiornatediadrano.htm

dal 1820 al 1860

Il problema sociale in Sicilia, come in Adernò, aveva dato luogo fin dall'epoca spagnola a rivolte, provocate, nell'immediato, dalla esosità fiscale, dalla corruzione, dalle carestie. Queste rivolte si erano effettuate secondo un canovaccio fisso: scontento della nobiltà o di parte di essa, brama della borghesia di partecipare al potere, anelito confuso delle masse di scrollarsi l'insostenibile peso delle violenze e delle gabelle e infine la cieca arroganza delle maestranze quasi sempre "longa manus armata" della nobiltà per castigare la brama di giustizia dei piccoli contadini e dei braccianti, che, una volta usati, per ottenere quanto voluto dai nobili, venivano traditi e spietatamente schiacciati come temibili insidiatori della roba. Così nel periodo 1820-1860 con varie colorazioni e motivazioni si succedettero tumulti e rivoluzioni, senza che mutasse il predetto canovaccio. I nobili e i borghesi, divenuti " civili ", ora in veste di liberali ora in veste di filoborbonici, si presentavano come intransigenti tutori della proprietà e dell'ordine costituito. Talora facevano appello alle masse popolari per non perdere il potere, ma regolarmente le tradivano, provocando il fallimento anche dei più buoni propositi di rinnovamento. Di fatto, quando le masse "con le cattive cercavano di aver parte del potere e della roba", scattava una feroce alleanza tra i proprietari di qualunque idea ed estrazione che si premuravano a "fermare - con truppe speciali quei popolani, che, poco apprezzando le idee liberali e i governi costituzionali, desideravano solo una rivoluzione sociale e avevano fame solo di terra. Nel 1820 i Comuni intorno ad Adernò specialmente Biancavilla e Bronte cominciarono ad agitarsi, in seguito alla rivolta antiborbonica di Palermo scoppiata il 17.VII.1820. Nei comuni suddetti si formarono partiti favorevoli a Palermo e alla separazione della Sicilia da Napoli e partiti filoborbonici, che avevano il loro centro a Catania e un punto nevralgico operativo in Adernò. Qualche mese dopo l'inizio della rivolta di Palermo, moltissimi Comuni della Sicilia centrooccidentale si unirono alla capitale e il grosso delle forze si concentrò a Troina agli ordini del colonnello Pietro Bazan per sorvegliare e cercare di conquistare i Comuni dell'Etna. Si formarono dei comitati provvisori a BiancaVilla, a Bronte e in Adernò, ma quello di Adernò venne subito sgominato dalla polizia, mentre rimanevano vivaci quelli di Bronte e di Biancavilla. Adernò divenne la piazzaforte dei filoborbonici accolse il brigadiere maggiore, principe Della Catena e nello stesso tempo formò delle squadre punitive di circa 200 uomini al soldo di tari tre al giorno, capitanati dal barone don Francesco Palermo. Contro la ribelle Bronte in data 15-9-1820 si eseguì una spedizione punitiva per cogliere di sorpresa quei paesani. Le truppe borboniche e Adornesi si diedero a saccheggiare e a violentare i Brontesi, che si trovavano nelle campagne circostanti l'abitato di Bronte. Ma il popolo di Bronte, col coraggio della disperazione si difese e ricacciò gli aggressori che con diverse perdite se ne tornarono ad Adernò. Anche contro Biancavilla si mossero le truppe borboniche di stanza ad Ademò e riuscirono a ricondurre l'ordine in quel Comune. Corifeo dei reazionari più ostili ad ogni forma di governo liberale, fu in Adrano il giudice mandamentale Giovannì Sangiorgio Mazza. Si agitavano perciò gli animi siciliani, i quali avrebbero voluto sostituire al regime della monarchia assoluta quella costituzionale. In Adernò questi sentimenti non furono pubblicamente palesi, essendo grande la devozione della città verso la dinastia che regnava: infatti nel 1812, quando venne adottata la Costituzione, i signori di Adernò subirono ma non desiderarono la nuova forma di governo, come riferisce il Sangiorgio, uno storico affezionatissimo alla casa regnante di quel tempo, che perciò interpretò a suo modo la tradizionale infedeltà dei Borboni, dimostrando il giubilo degli adraniti, quando re Ferdinando, abolite la costituzione, ritornò al potere assoluto". Nell'autunno dello stesso anno 1820 per riportare l'ordine in Sicilia sbarcò a Messina il generale Florestano Pepe con 6000 uomini e con artiglieria e iniziò la riconquista, finché venne a un accordo col presidente della giunta provvisoria di Palermo, promettendo in cambio del ritorno all'ordine, di discutere il problema di un parlamento siciliano. Ma l'anno successivo con l'aiuto degli austriaci, Ferdinando I impose l'ordine con i processi e con le condanne anche in Sicilia. Dopo la reazione, negli anni '30 ripresero i moti di rivolta che si alternavano con periodi di ricostituzione dell'ordine mediante feroci interventi polizieschi. Comunque si ebbe un crescendo di rivolte che culminò nella grande rivolta del 1848, in cui gli uomini più illuminati cercavano di attuare la totale emancipazione della Sicilia dal Regno di Napoli. La rivolta scoppiò a Palermo il 12 Gennaio di quell'anno al grido "Viva la costituzione del 1812". Il 25 Marzo sì radunavano a Palermo il Parlamento e tutti i Comuni dell'Isola inviarono loro rappresentanti e fu votata la decadenza dei Borboni. Ma invano si cercò di avere come re di Sicilia il duca di Genova col nome di Alberto Amedeo, che non accettò. Nei centri più attivi dell'Etna si verificarono moti popolari specialmente a Bronte e a Biancavilla, mentre Adernò rimaneva il centro del partito dell'ordine, pur aderendo al parlamento di Palermo. Quando i Borboni, guidati dal principe di Satriano, occuparono Messina e si diressero verso Catania, da Biancavilla, da Adernò e da altri centri etnei partirono in soccorso di Catania gruppi di volontari con a capo il prete agostiniano adornese don Pietro Cottone e il biancavillese don Angelo Biondi. Queste poche truppe, male armate, appena videro che i borbonici bombardavano Catania, si ritirarono verso i paesi di origine, anche perché si avvicinava il generale borbonico Nunziante, che con tre battaglioni di soldati, con carabinieri a cavallo e con otto cannoni occupò Paternò, Biancavilla, Adernò ed altri centri. Il 1849 fu un anno di pesante reazione, ma in seguito non cessarono qua e là i tumulti provocati dal desiderio dei contadini di avere le quote delle terre comunali, che però via via cadevano in mano dei ricchi proprietari, detti "civili". Alimentava anche il senso di rivolta la frequente apparizione di colera, che il popolo credeva fosse propinato dal governo borbonico e dai suoi fedeli. Di fatto l'aumento della popolazione, la mancanza di lavoro, la denutrizione e le spaventose condizioni igieniche, poiché anche le acque dei pozzi e delle sorgive cominciavano ad essere inquinate, erano le vere cause delle epidemie, ma la errata opinione popolare non era smentita dai così detti liberali anti-borbonici, che ricercavano sempre e comunque l'appoggio delle masse, salvo poi a tradirle e a deludere le loro legittime aspirazioni di miglioramento. I così detti civili avevano grande paura dei contadini, come probabili insidiatori della proprietà, per cui nei vari centri come Adernò si manteneva la cosiddetta Guardia Nazionale, formata da proprietari per tenere a bada i contadini poveri e se era il caso castigarli con tribunali speciali e con lle commissioni di guerra che andavano per le spicce nelle condanne capitali. Tutti i moti dal 1820 al 1859 fallirono, perché, mentre i rappresentanti più liberali della classe dei proprietari o dei professionisti ricercavano la libertà politica e la costituzione, le masse popolari al contrario più o meno confusamente, volevano una rivolta sociale che le rendesse partecipi della proprietà della terra.

dal 1860 al 1900

Anche i proclami garibaldini del 1860 furono interpretati dai "civili" come incitamento alla conquista della libertà politica, se necessario, anche mediante l'unione all'Italia, mentre le grandi masse contadine credettero che quei proclami promettessero la divisione delle terre e una certa giustizia sociale. Questa doppia e diversa interpretazione del pensiero e dell'opera di Garibaldi, rese le amministrazioni locali spesso ambigue nei loro comportamenti, poiché i "civili", che le formavano, spesso stettero a guardare verso chi pendesse la bilancia della vittoria, cioè se verso i Borboni o verso i Garibaldini, per imporre poi il loro ordine, camuffandosi delle idee dei vincitori. Di qui le accuse dei governatori militari garibaldini, che pur essi appartenenti alla classe della borghesia o dei civili, non potevano capire l'odio represso delle masse contadine, che spesso sfociava in rivolte di tipo sociale contro la classe dei proprietari. Nino Bixio o il generale Poulet che erano di estrazione borghese, acquartierati in Adernò, non comprendendo i moventi delle rivolte contadine, le presero come manifestazioni di bestiale ferocia e le repressero colle commissioni di guerra e coi plotoni di esecuzione. In Adernò tra guardie nazionali e truppe garibaldine il popolo fu tenuto a bada e soltanto ebbero libertà di azione i liberali moderati, non contrari alla unificazione col Piemonte. La Guardia Nazionale adornese era capitanata da don Antonio Arcoria e da don Francesco Sangiorgio Mazza, che con le loro truppe paesane eseguivano azioni di rastrellamento e di repressione dei moti popolari non solo in Adernò, ma anche nei paesi vicini e specialmente a Biancavilla. Se è vero che in Adernò la bandiera italiana sventolò sul castello non molto dopo lo sbarco di Garibaldi, è anche vero però che, quando i garibaldini passarono per Adernò, il paese apparve quasi deserto. Comunque i tempi erano maturi almeno per la rivolta politica, specialmente dopo il sanguinario governo di Ferdinando II di Borbone (1830-1859) che cercò di dissanguare con ogni sorta di tassazione la Sicilia: si pagava anche una tassa per le finestre e per i balconi, si ripristinò la gabella del macino: insomma l'isola registrò un grave arretramento in tutti i settori accumulando un enorme debito pubblico, cadendo nello strozzinaggio della banca Rothschild. La fame più nera era tornata anche in seguito al decreto borbonico del 28-4-1855 con cui si permetteva la libera esportazione di vettovaglie ai grossi produttori, mentre per la scarsezza del lavoro e per i salari assai bassi le grandi masse dei lavoratori pativano la fame. Questo spiega in parte l'entusiasmo suscitato anche nelle masse dalla conquista del dittatore Garibaldi. Questi con decreto 14-5-1860 istituiva una milizia obbligatoria a cui venivano obbligati gli uomini dai 17 ai 50 anni, ma tale iniziativa non fu bene accolta dalle masse popolari, che non erano abituate a tale servizio e che invece avevano il desiderio di avere una terra che bastasse ad alimentarli. Anche l'aspetto sociale della questione fu preso in considerazione da Garibaldi, che con successivi decreti aboliva il dazio del macino, quello delle importazioni di vettovaglie e prometteva di dare la precedenza ai combattenti per la libertà nella divisione delle terre comunali. Inoltre stabiliva di distribuire le terre demaniali a tutti i capi famiglia poveri, non possidenti. In Adernò per tenere in piedi l'amministrazione e tenere l'ordine si costituì il 10 luglio 1860 un Consiglio Civico presieduto da don Lorenzo Ciancio, che prendeva ordini dal governo militare di Catania e dava ordini al sindaco di Adernò, che in quell'anno fu don Nicola Guzzardi Minissale. Fra i principali provvedimenti si crearono 12 guardie municipali, si riunì la commissione elettorale nella Matrice, essendo vicario don Rosario Piccione, si elesse un giudice conciliatore nella persona di don Antonio Ciancio, si elesse il secondo commesso della cancelleria comunale nella persona di don Vincenzo Ciancio, si elessero due guardaboschi nelle persone di don Gaetano La Mela e don Pietro Di Stefano, si elesse giudice supplente don Gioacchino Guzzardi Battiati, si istituì una commissione edilizia detta dell'"ornato" per dare un aspetto più decente ed elegante alle strade e alle fabbriche, si acquistò il sigillo del Comune. Inoltre si scrisse una lettera d'invito a Garibaldi, cogliendo l'occasione per vantarsi del fatto che "le squadre e la Guardia Nazionale adornesi insieme al colonnello Poulet avevano riportato l'ordine in Biancavilla" e del fatto che "Adernò era stata riguardata come la chiave della sicurezza dell'intera provincia sempre scelta da tutti i governi a quartiere per truppe tutelari dell'ordine". Si proponeva anche al dittatore di stanziare in Adernò una forza opportuna, "essendo questa un punto strategico per spiare i movimenti dei tanti Comuni circostanti". Si provvide ad illuminare con fanali a petrolio la statua di S. Nicolò, mentre si chiedevano al governatore di Catania maniere forti contro "alquanti malvagi cospiratori contro l'ordine pubblico, che attentavano alla vita e alla proprietà dei cittadini". Si trattava di un rilevante numero di briganti e di latitanti per renitenza alla leva. Inoltre si chiese al governatore di Catania di eliminare gli intrallazzi derivanti dal fatto che gli amministratori erano fra loro parenti stretti, il che dava possibilità di frodi, specialmente nell'assegnazione di quote di terre comunali. Venne eletto sindaco il barone don Giuseppe Pulìa, che provvide a fare funzionare la predetta commissione dell'ornato pubblico del Comune. Si assegnarono onze 18 per il mantenimento del teatro, si riordinarono i conti delle opere pie: Spartà, Di Maggio, Cerami, La Ferla, Sicilò, Pisani e altri. Si inaugurò il liceo comunale. In data 27.1V.1862 si decise la costruzione di 8 fanali per la pubblica illuminazione e si incanalarono le acque delle sorgenti di S. Giovanni. Si chiese ancora al governatore di Catania di provvedere acciocché si ponesse termine agli abusi di potere del maresciallo dei carabinieri, che aveva dato motivi di querele a molti cittadini, sia con sfacciate richieste di indennizzi non dovuti, sia per condotta morale, sia perché rilasciava libero qualche carcerato in cambio di un donativo e faceva uso della violenza, percuotendo anche onesti cittadini. Si provvide inoltre a lastricare la via Garibaldì e la via Roma (chiamata allora via Nuova), si comprò anche dal canonico Vincenzo Guzzardi un tratto della Vigna di corte, che era malsana a causa degli acquitrini, per farne una zona di pubblica utilità. Infine in seguito alla legge di soppressione delle case religiose in data 1-7-1866 il consiglio comunale chiese allo Stato di assegnare al Comune i conventi di S. Agostino, di S. Francesco, di S. Domenico e i monasteri di S. Chiara e di S. Lucia per adibirli ad usi sociali o pubblici quali: un ospedale, un asilo di mendicità, una scuola tecnica, quartieri per le truppe stanziali o di passaggio, uffici per le imposte, un ospizio femminile, un asilo infantile e scuole elementari. Questi servizi furono in parte realizzati man mano che gli edifici venivano ceduti; infatti fino agli anni '20 del secolo successivo sopravvissero monache nel monastero di S. Lucia. In data 17-IV-1867 per dare lavoro si costruì una lunga strada cittadina che dalla chiesa della Catena, per la contrada di Patellaro, la chiusa Gallo, S. Filippo, arrivava alle chiuse della Lisia e allo "stradone di Bronte". Nello stesso periodo si lastricava la strada da S. Lucia ai Cappuccini e quella dalla Catena al Teatro Bellini. In media si raccoglievano 3000 salme di grano, 117 botti di vino, 1 10 cafisi di olio, 20 migliaia di agrumi, 100 cantari di frutta. Gli agrumi si esportavano dal porto di Catania insieme ad ortaggi, cotone e mandorle, mentre si importavano grano, olio, vino e tessuti. Il comune si trovava al bivio delle rotabili Catania-Palermo e Palermo-Messina, le strade interne erano strette, tortuose e malbasolate. Il clima era temperato; senza nebbia, con piogge moderate. La neve sull'Etna durava fino ai mesi estivi. I terreni erano in maggioranza vulcanici, tranne gli ex feudi di Poggio di Vaca e di Cavallaccio. I vigneti erano per lo più nelle seguenti contrade: Dagala, Timpone' Solicchiata, Gisterna, Montalto, Luna, Santuzza, Camerone, La Favara, i Pianti e la Stagliata. I giardini di aranci o erano legati all'abitato o si trovavano nelle adiacenze del fiume Simeto. Questo era l'unico fiume del territorio, con un letto largo in media 30 m. con livello dell'acqua da 35 cm. a metri 3,50 secondo la stagione. Vi erano il ponte di Maccarrone, il cui arco principale è lungo m. 30 e alto m. 12; il ponte di Biscari nella contrada detta di Cimino; sul ponte passava anche un acquedotto che portava le acque delle lavare di Santa Domenica al feudo Ragona, qualche secolo prima coltivato a riso. Il ponte di Carcaci o dei Saraceni aveva un arco maggiore di m. 8 per m. 10 di luce. Vi erano i seguenti guadi: della Carrubba, di Cimino, di Maccarrone, di Mandarano e di Malastalla. Sempre alla data del predetto questionario si elencavano le seguenti sorgenti: casino Ciancio, San Giovanni, Giobbe, Biviere di Palma, Buglio, Minà, San Nicolò, la Cubba, Santa Domenica, le Ciappe, Irveri, il Serpente, Malastalla, Fogliuta, Naviccia, Sciacca e Santa Elia. Nel paese si trovavano 155 pozzi della profondità di m. 11. Vi erano i seguenti mulini ad acqua: della Serra, della Grazia, della Abbadessa, della Rocca, dell'Invidia, del Molinello, di Irveri, del Cimino e di Policello. Nell'abitato vi erano 26 chiese e 6 in campagna. I fuochi erano 3300, con circa 13000 anime. Le locande erano 4: quella detta Dell'Aquila D'Oro con 16 posti letto, quella dell'Etna con 12 posti letto, quella della Sicilia con 26 posti letto, quella di Floresta con 12 posti letto, oltre ad alcuni fondaci. Vi era un ospedale con 7 posti letto e una macchina a vapore per sgranare il cotone. Il comune possedeva fondi urbani, provenienti dalle soppresse case religiose: in parte dati in aflìtto, in parte dati a censo e in parte usati come scuole, uffici giudiziari, catasto, ufficio delle tasse, quartieri per soldati stanziali o di passaggio, caserme per carabinieri e pubblica sicurezza. I fondi rustici comunali erano circa 3000 ettari e provenivano dallo scioglimento degli usi civici dalla soppressione delle case religiose. La maggioranza della popolazione era composta da braccianti e piccoli proprietari. Il paese mancava di fognature, di condotte di acqua potabile, di servizi igienici, che rendevano facile il sorgere e il diffondersi delle epidemie specialmente di colera e di tifo. Elevatissima era la mortalità infantile e quasi totale l'analfabetismo. Come possiamo vedere dal verbale di un consiglio comunale del 30-6-1866, gli amministratori erano soltanto della classe dei "civili" e dei grossi borghesi, mancavano completamente le altre categorie sociali, allora era sindaco Nicolò Valastro, segretario comunale don Pietro Campo, consiglieri il barone Benedetto Guzzardi, don Pietro Sidoti, don Nicolò Guzzardi Minissale, don Giuseppe Guzzardi Morabito, don Gioacchino Bulla, don Nicolò Grasso, don Nicolò Battiati, don Nicolò Gualtieri, don Alessandro Ciancio, il resto erano dei grossi borghesi. Dal testo del verbale veniamo a sapere: "che Adernò era superiore a tutti i comuni circostanti per ricchezze private, per commercio, per agricoltura, per la Pastorizia, per le terre comunali, per i suoi edifici, per la sua posizione strategica, per la stazione telegrafica ed elettrica, per gli uffici delle tasse, del catasto, del demanio, per la residenza di un capitano dei regi carabinieri e per la sua sede giudiziaria".
Era inoltre punto obbligato di passaggio lungo le vie interne Catania -Palermo e Messina Palermo. Nonostante tale importanza il potere governativo e quello provinciale nessuna spesa avevano mantenuto per l'agricoltura e per i contadini piccoli e medi, che pagavano la pesantissima tassa della fondiaria, mentre i braccianti che costituivano la maggioranza della popolazione erano affatto privi di lavoro e costretti a languire senza soccorso alcuno, eccetto qualche elemosina. Questo si deduce dal verbale di un consiglio comunale del 1867. Di fatto essendo sia gli amministratori nazionali che locali di estrazione borghese e di idee moderate, non volevano, né sapevano risolvere i problemi dei contadini poveri a cui non venivano neanche assegnale le quote delle terre comunali, perché essi non avevano i capitali per coltivarle. Perciò enormi estensioni di terre andarono ad arricchire i già ricchi, come per esempio quel barone Benedetto Guzzardi, grande mazziniano, che ritagliò per sé una sostanziosa fetta delle terre dell'ex monastero di Santa Lucia. A causa delle precarie condizioni della classe contadina, per tutta la metà del sec. XIX e fino al 1911 si diffusero periodicamente rovinose epidemie di colera, di tifo, di difterite, di vaiolo nero, che colpivano in prevalenza i più poveri, mentre chi stava bene e, anche spesso, le stesse autorità cittadine se ne fuggivano nelle loro case di campagna. Certo non mancarono anime buone, anche forestiere, nel tentativo di alleviare la fame e le sofferenze delle masse popolari. Il potere alle richieste di lavoro e di pane rispondeva con bastonature, umiliazioni ed elemosine; questo spiega in gran parte il diffuso fenomeno del brigantaggio, del ladroneggio, della prevaricazione di tipo mafioso, di chi anche con le cattive intendeva accaparrarsi la terra. Di qui anche lo stato d'inquietudine e i frequenti tumulti come quelli del 1863, del 1866 e altri in cui era tale il sospetto tra la popolazione e le forze dell'ordine, che molti cittadini così detti "civili" finivano con l'asserragliarsi nelle case di campagna. La famiglia "civile" dei Crucillà, venne quasi sterminata per un errore delle forze dell'ordine, nella sua casa di campagna in contrada del "Camerone". Tumulti si ebbero anche nel Marzo del 1898 in cui le masse affamate protestarono con grande paura dei benestanti. Il sindaco di allora don Antonio Inzerilli lasciò scritto nella sua relazione che, per venire in soccorso della classe più povera e maggiormente svantaggiata per mancanza di lavoro, nelle feste di carnevale distribuì mezzo chilo di pasta a testa e cinquanta centesimi ai moltissimi bisognosi e fece appello alla carità dei benestanti e delle autorità per formare un comitato di beneficenza per la raccolta di elemosine per i più bisognosi. Questo sindaco in un primo tempo aveva rifiutato il, grano, quasi guasto, che giaceva nei magazzini militari, poiché i sensali gli assicurarono che in Adernò c'erano circa 2000 salme di grano buono, che invece per motivi speculativi e per sfuggire il dazio, i ricchi produttori avevano venduto di notte ad altri paesi, mentre la fame tormentava gran parte degli adornesi. Davanti allo spauracchio del tumulto, questo sindaco si convinse a comprare il grano militare per provvedere di pane le botteghe, ma, poiché il tumulto non si placava, fece intervenire l'esercito e le forze dell'ordine per arrestare i partecipanti al tumulto, che erano in maggioranza povere madri di famiglia, contro i cui mariti egli chiamò rinforzi dal prefetto di Catania. Come era avvenuto fin dal periodo spagnolo, l'apparizione del prefetto calmò la folla, poiché in fondo le masse avevano rispetto delle autorità. Per tenersi buona la maestranza disoccupata e affamata, si programmarono opere pubbliche come l'apertura della via Guzzardi nel quartiere della Catena, si sistemò la piazza Sant'Agostino, si costruì la piazza del Mercato, si spianò la piazza di Gesù e Maria e si sistemarono altre strade. In questi lavori si occuparono 651 muratori, 36 scalpellini, 760 manovali, 120 carrettieri e 1165 terraggieri. Il sindaco Inzerilli nella sua relazione che porta la data del 26-6-1898, esortava i consiglieri a prendere altri provvedimenti per prevenire i germi della guerra civile e del brigantaggio, che trovavano un terreno favorevole nella estrema miseria delle masse popolari. La stessa diagnosi dello stato di Adernò faceva il prevosto Salvatore Petronio Russo in data 15-12-1897, nella relazione per il campanile della chiesa Madre. In essa così concludeva: " Da tutto un popolo... si diede pane e lavoro e si nutre fiducia... che in Adernò avverrà la crisi e lo sfratto dei numerosi furti e delitti che si erano deplorati per mancanza di lavoro... ".

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