I canti della nostra Gente (*)

(*) tratto integralmente dall'opera inedita del Preside Nicola Servodidio dal titolo "TERRITORIO E COMUNITA' DI SAN MARTINO SANNITA - Origini, vicende, ipotesi, aspetti, sviluppo socio-economico, note di antropologia" - Impostazione 1965, aggiornamento 31.12.1988

Il canto e il lavoro costituivano un momento particolare della vita della nostra gente: il lavoro metteva in moto il meccanismo psicologico della creatività e della sublimazione.

La fantasia si accendeva durante il lavoro, sciogliendosi in canti a volte flebili e melodiosi, come quelli della mietitura, che rivelavano sofferenza e fatica; a volte, impetuosi e ritmici, come quelli che accompagnavano la trebbiatura del grano con i coreggiati; a volte lieti e melodiosi, come quelli della vendemmia e della raccolta delle olive.

Essi esprimevano la pena del lavoro, la gioia del vivere, la speranza nella buona raccolta, la solitudine dei campi.

Le nenie sommesse della mietitura, il ritmo cadenzato e alternante dei trebbiatori, i cori delle vendemmiatrici, gli assoli delle raccoglitrici di olive, sono ancora impressi nella memoria di chi scrive, che non ha naturalmente la capacità di tradurre i ricordi in notazioni musicali.

Era un canto d'impegno operativo e non di protesta o di evasione; costituiva una esigenza spirituale del lavoratore, un antidoto alla fatica e alla noia.

Un tempo le valli e i colli risuonavano di lavoro e di canti, ma questo messaggio non è stato raccolto dai giovani, perché ora nei campi non si lavora e non si canta come una volta.

E' finita l'agricoltura festosa.

Se i testi e i motivi delle canzoni non fossero andati perduti, un'analisi letteraria e sociologica del loro contenuto ci avrebbe potuto rivelare molti aspetti della vita dei nostri progenitori.

Le passate generazioni cantavano frequentemente:

Reginella campagnola; Mamma; Amor, dammi quel fazzolettino; Mamma mia, dammi cento lire; Terra straniera e canti militari o religiosi.

Erano frequenti canzoni e motteggi.

Ora, la gente canta poco o niente, presa dall'edonismo e dallo stress della vita moderna. Ama meno raccontare le leggende, forse perché ha superato certe situazioni oniriche dell'esistenza quotidiana.

Il canto era l'espressione rasserenatrice della vita di quei tempi, una ricerca di serenità, direi una specie di terapia collettiva, meloterapia, per la gente angosciata da tanti problemi esistenziali.

Riporto qualche strofa di alcuni canti:

 

"Canto del bracciante".

E' fatto notte e lo padrone abbotta,

dice ch'è stata corta la jornata.

Statti citto, padrone, non abbotta,

se è stata corta oi, sarà longa crai.

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Frammento del "canto dei trebbiatori"

Iammo ia... tùttù - tùttù.

O campaniello a reto a porta,

se non ci mitti tu, ciu metto io.

Oh! oh! oh!

O che?

O campaniello a reto a porta

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Canto dei "trappitari"

A zi monaca quanno balla

'u cummento fa tremma.

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