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LA LEGGENDA

DI GIULIO PEZZOLA

di Marcello DI PIETRO (rivisto da Maurizio Roscetti)

dal libro: "Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo <<Memoriale>> (1598-1673) di Giorgio Morelli

da: html http://www.borgo-velino.it/pezzola.htm

CAPITOLO III

1. Vita difficile del Pezzola bandito dal Papa e dal Viceré. - 2. Il ricatto di Zagarolo e l'uccisione di Ruovray. - 3. Cattura del principe di Sanz.

1 - Con una taglia sul capo, una condanna a morte e senza più la protezione del Viceré di Napoli, il Pezzola, ormai abbandonato a se stesso, non poteva concedersi un attimo di riposo o di distrazione; la vendetta giurata dai potenti nipoti del Papa poteva colpirlo ovunque. Non gli era nemmeno possibile raggiungere, senza pericolo, la sua ben fortificata casa, dove avrebbe potuto attendere, con sufflciente sicurezza, tempi migliori. I quali non si fecero poi attendere troppo.

La decisione presa dal conte di Monterey di licenziare dal servizio il Pezzola divenuta necessaria per non render ancora più tesi i rapporti con la Corte di Roma va collocata negli ultimissimi giorni di ottobre 1637 (33). Una decina di giorni dopo il Viceré dovette rientrare a Madrid per lasciare il governo al suo successore, il duca di Medina de las Torres. Assunto il governo il 13 novembre, il nuovo Viceré revocò subito l'ordine del precedessore e chiamò a sé il Pezzola nominandolo Capitano di campagna che, alla testa di cento uomini, venne inviato in Puglia col compito di liberare quella regione da alcune bande dì ladri e assassini che vi si erano rifugiate.

Nessuna notizia di rilievo registrano le cronache durante questo periodo di servizio regolare compiuto dal Pezzola; servizio che si protrasse per tutto il 1638 e oltre.

Il 1639, invece, fu l'anno nel quale egli si distinse in vari " servizi " resi al~ Corte; uno di questi ebbe una risonanza tale di cui ancora oggi è viva l'eco nella tradizione popolare del suo paese natio.

2 - Reintegrato nel Regno, il Pezzola bramava che altrettanto si facesse da parte dello Ecclesiastico. La condizione di fuorilegge gli era di gran peso e svantaggio avendo in quello Stato molti interessi non solo privati.

Nell'ottobre 1639, da Città Ducale scriveva a Roma al suo agente e confidente, Giovanni Pagano, chiedendo di procurargli il perdono del papa. La fama che il Pezzola godeva in quella Corte non era, certo, delle più lusinghiere. "Quakhe mala lingua", scrive, aveva interesse a tener vivo il rancore che Urbano Vili nutriva verso di lui. Prevedendo quale reazione avrebbero avuto i Barberini alla richiesta del Pagano, preoccupato, aggiunge: " ma spero in Dio che la remissione mia così a V.S. non sarà per esserle di danno... ", ma poiché " l'obbligo sarà infinito non posso dirli altro che per il servitio ch'io recevo le farrò vedere con ch'ansietà desidererò servirla " e concluse implorando "Signor mio mi aiuti per l’amor di Dio"

Non perse occasione di mostrare zelo necessario per meritare la fiducia e riacquistare il perdono dei Barberini. La lettera sopra citata è del 22 ottobre. Nove giorni dopo avvisa di avere con sé, pronto a consegnano, la testa di Giovanni di Marzio Rosabella, uomo facinoroso che con la sua banda infestava ~e terre del Papa. Dopo altri dieci giorni, il 10 novembre, informava il Pagano (lett. 10) di aver ricevuto una lettera di Attilio Mareri, scherano del card. Antonio Barberini, con la quale, a nome del cardinale e del Governatore di Roma, gli veniva afhdato l'incarico di portarsi a Zagarolo dove due mercanti veneziani erano stati rapiti a scopo di ricatto. Questa missione affidatagli ufficialmente prova che gli uffici interposti dal Pagano, con l'appoggio di persone di gran nome, sortirono l'effetto sperato e desiderato dal beneficiato.

Il Pezzola riuscì a liberare i due mercanti: Paris Parisiano e Camillo Cornaro e catturare i rapitori che vennero giustiziati il 9 febbraio 1640 (35). Portatosi, poi, in Forano in Sabina catturò un altro bandito e due ne uccise.

Riacquistata, ormai, nuovamente la fiducia del card. Antonio Barberini, il nostro Giulio faceva del tutto per rientrare nelle grazie anche del card. Francesco. L'occasione non si fece troppo attendere.

Fin dal 1636 il card. Francesco emanò un editto in cui veniva ordinata l'immediata chiusura di tutte le case da gioco esistenti in Roma, anche e soprattutto quelle che ogni Ambasciatore manteneva nei pressi della propria abitazione. L'Ambasciatore di Francia, marchese di Coeuvres (37), dati gli stretti rapporti che correvano tra la sua nazione e il Papa, si ritenne in diritto di non rispettare l'editto e continuava a tener banco nel suo locale, dove un certo Giulio Bianconi fungeva da gestore. Lo sosteneva a mantenere quella posizione il card. Antonio, il quale, affascinato dalle grazie sia della moglie, sia della figlia, frequentava assiduamente la casa del Coeuvres, assicurandolo che avrebbe pensato personalmente a ridurre a migliore ragione il fratello. Il card. Francesco, conoscendo bene di qual genere fossero i rapporti che tenevano legato Antonio con la famiglia dell'Ambasciatore, rimase insensibile ad ogni sua preghiera e fu irremovibile nella sua decisione, tanto che si giunse ad una aperta ostilità, tra i due fratelli, che sfociò con l'arresto e la condanna ai remi del Bianconi. Il card. Antonio, mal soffrendo l'autorità del fratello, organizzò un piano per liberare l'innocente prigioniero. Si accordò con gli sbirri che dovevano condurre i condannati a] Porto di Ripa Grande per essere imbarcati alla volta di Civitavecchia, affinché il Bianconi fosse messo ultimo della fila. Il primo di agosto 1639, di prima mattina, il Cavallerizzo dell'Ambasciatore, Rouvray, con altri uomini, appostatosi nei pressi del Convento di S. Francesco a Ripa, riuscì a liberare il prigioniero e condurlo fuori dello Stato Ecclesiastico.

È facile immaginare lo sdegno che assalì il Papa e il card. Francesco per sì grave offesa fatta alla giustizia. Si aprì una inchiesta tra gli sbirri e il Bargello e si accertò che l'autore materiale del rapimento fu il Rouvray. inutilmente si intimò la consegna del colpevole. Il Cavallerizzo, temendo della propria vita, chiese di ritornare in Francia; invece l'Ambasciatore volle che rimanesse presso di sé, sapendo che il Card. Francesco non poteva giungere ad alcun eccesso per non turbare i pacifici rapporti che correvano tra la Corte di Roma e il Re di Francia. Intanto il Rouvray passeggiava liberamente per Roma e lo si vedeva spesso in carrozza in compagnia dell'Ambasciatore. Tanta impudenza mosse il Papa a promettere una grossa somma a chi consegnasse vivo o morto il Cavallerizzo.

Il 28 ottobre, durante una battuta di caccia nel parco della villa Taverna in Frascati, il Rouvray venne ucciso da alcuni sicari. La testa portata a Roma venne esposta a Ponte S. Angelo e gettata poi nella fossa comune destinata ai banditi.

La morte ignominiosa data al francese stava per sollevare un affare di Stato. Da Parigi giungevano voci minacciose che fecero ritenere opportuno inviare colà un Nunzio Apostolico straordinario per appianare la situazione. La scelta cadde su mons. Giulio Mazzarino, il quale ebbe modo di mettere in luce le sue eccellenti doti di diplomatico riuscendo ad acquetare il contrasto con piena soddisfazione da ambo le parti.

Tutte le relazioni manoscritte che ci rimangono, di quel successo tacciono chi fosse stato l'autore materiale dell'omicidio; solo il Gigli, nel suo autorevole Diario, dice che furono due uomini del Pezzola. Notizia confermata anche da un altro cronista sincrono napoletano, Francesco Caracciolo e ripetuta dal Parrini.

Di questo avvenimento, che contribuì in modo determinante a far meritare, in seguito, l'indulto al Pezzola, non si fa nessun accenno nel Memoriale. Forse perché l'operazione non venne eseguita personalmente e quindi non degna di figurare tra le altre dove egli mostrò il proprio coraggio e rischio della vita?

Visto con quanto impegno Giulio si prodigava a liberare lo Stato Ecclesiastico da gente pericolosa, alla fine di novembre " il Papa si contentò di perdonare -scrive il Gigli et rimettere un capo di banditi con trenta compagni, perché promise di mandare a Roma 12 teste di altri banditi et di andare contro gli altri banditi che erano nello Stato della Chiesa. Si chiamava questo capo di banditi Giulio Pezzola, il quale essendo rimesso mandò a Roma diverse teste di altri banditi et poi se ne venne a Roma con i suoi 30 compagni, et come quello, che era vassallo del Regno di Napoli, fu ricevuto et alloggiato in casa dell'Ambasciatore di Spagna, il quale habitava nella Piazza della Trinità de'Monti " (41),

L'Ambasciatore spagnolo, marchese di Castel Rodrigo (42), si prodigò con impegno presso la Corte papale a favore del suo protetto, trovando ben disposti anche i due potenti cardina] nipoti: l'uno, grato al brigante per il caso Rouvray; l'altro soddisfatto per l'operazione compiuta a Zagarolo.

Urbano VIII non oppose troppe difficoltà a perdonare, prima, e a indultare, poi, il Pezzola. Dopo qualche comprensibile esitazione, verso la metà di dicembre 1639 sottoscrisse il breve con il quale concedeva ampia e totale assoluzione di tutti i misfatti commessi da quello.

Come vivesse e fosse trattato in Roma il famigerato brigante lo apprendiamo da un dispaccio, in data 31 dicembre di quell'anno, dell'Ambasciatore toscano Francesco Nicolini:

"Giulio Pezzola trattenuto un mese, e da vantaggio, in casa del Sig. Amb. Castei Rodrigo dal quale veniva accarezzato con infinite dimostrazioni d'amorevolezza, facendolo servire in argento da suoi Aiutanti di Camera e di una Carrozza continuamente, ebbe finalmente giovedì della settimana passata il Breve della sua remissione in forma amplissima e con tutte quelle cautele, che egli medesimo ne ha volute, essendoli stati perdonati tutti gli eccessi et homicidi che ha saputi dire, fra quali si dice di due Preti Sacerdoti scorticati vivi, ma anco quelli che li fusse piaciuto di tacere, o fossero occulti. Oltre a queste il Sig. Barberino li dette patente di dover essere tollerato in campagna con due buomini armati, et essendoli andato innanzi lo trattò con buone dimostrazioni. Il sig. Card. Antonio poi non solo li ha fatte cortesie, ma ha trattato di provvisionarlo, se non che egli medesimo per essere suddito del Re ha recusata la mercede. Il Governatore et il Fiscale, hanno gareggiato per incontrare forse l'bumore dei padroni, in facilitarle le grazie che ha volute: in somma egli era ben visto da tutti, et accarezzato più tosto con ammirazione ".

Ed ancora una volta la ragione di Stato e l'opportunità politica avevano riabilitato un uomo, che la morale e la civiltà non possono non relegare tra i peggiori uomini.

3 - Il marchese di Castel Rodrigo sapeva che a Roma si trovava un giovane nobile francese, Giovanni Orefice principe di Sanz, col preciso incarico, affidatogli da Richelieu, di organizzare una sommossa per sollevare il Regno di Napoli contro gli spagnoli.

Da Napoli il Viceré impose al suo Ambasciatore a Roma di catturare in ogni modo il Sanz e consegnarglielo vivo; gli indicava anche a chi affidare l'incarico per la sicura riuscita della delicata e pericolosa operazione, cioè a Giulio Pezzola, la sola persona che per il provato coraggio e abilità, fosse in grado di portare a termine un'azione tanto ardita. Il compenso per lui sarebbe stato di 6000 ducati e la remissione dei suoi delitti.

Ecco la ragione per la quale il Pezzola, con il favore del Pagano, del Castel Rodrigo e di altri, riuscì a far credere al Papa un avvenuto pentimento del suo passato, simulando il desiderio di porsi nuovamente al suo servizio. S da quel momento che ebbe inizio il delicato lavoro per appianare i troppo tesi rapporti che esistevano tra il bandito e Urbano VIII, in maniera che quello potesse rientrare liberamente in Roma e studiare, nei minimi particolari, la progettata cattura del principe francese.

Nessuna remora morale trattenne il Pezzola a recitare una commedia tanto vile, verso il pontefice, deciso a non rinunciare per nessun motivo ad un affare dal quale era sicuro di poter trarre grossi vantaggi.

Erano molti giorni che il bandito si tratteneva a Roma godendo in ozio la riacquistata libertà e fiducia delle autorità, sicché il card. Barberini " gli fece dire che era tempo che ne uscisse di Roma, et andasse si come aveva promesso, per servitio dello Stato ecclesiastico, anzi gli volse dare un certo carico, et mandarlo a Ferrara. Rispose il Pezzola, che non poteva partire da Roma sin che non haveva certa risposta da Napori ". Cercava, è chiaro, di acquistare tempo e avere agio di predisporre accuratamente ogni dettaglio della cattura. Aveva preso, intanto, delle precauzioni: per non far apparire la prossima sua partenza una fuga, si fece indirizzare una lettera da un suo compagno nella quale lo doveva avvisare che il principe di Gallicano aveva pagato certi sicari per farlo uccidere in Roma, di modo che egli, ritenendosi più sicuro in campagna, era costretto ad allontanarsi da Roma. Prima di partire non mancò di pagare alla Cancelleria Crimina]e del Governatore quanto doveva per la remissione sua e dei suoi compagni.

Ora sappiamo, secondo quanto informa l'ambasciatore toscano nel dispaccio del 31 dicembre riportato più sopra, che il Breve della remissione venne consegnato al Pezzola il " giovedì della settimana passata ", cioè il 28; appena due giorni dopo il beneficiato avrebbe consumato l'ignobile tradimento.

Sulla cattura del Sanz, che fu uno dei clamorosi avvenimenti romani del sec. XVII, danno ampi particolari le cronache manoscritte coeve e i dispacci diplomatici dei vari ambasciatori.

Il piano ben studiato scattò nell'ora e nel giorno più caro e sacro ai cristiani (per far maggiore spregio al Papa?): la notte dì Natale, sabato 24 dicembre 1639. Uscendo dalla chiesa di S. Andrea delle Fratte, dopo aver assistito alle sacre funzioni, il principe di Sanz venne affrontato dal Pezzola e da una decina di suoi uomini.

Lasciamo la parola ai due cronisti contemporanei; il Gigli scrive: Il sopradetto Giulio Pezzola capo di banditi stando in Roma ordì un tradimento contro il sopradetto Principe Napolitano per mezzo di un paggio del d.o. Principe, il qual paggio essendo molto amato dal Padrone, gli fece credere, che si voleva far frate di S. Francesco di Paola, et l'indusse ad uscir di casa la notte di Natale, et andare alla Chiesa di S. Andrea delle Fratte, dove stanno li detti Frati, mentre si dicevano i divini officii, et poi lo persuase ad uscir di Chiesa per andar in altro loco. Nel partirsi fu accompagnato da alcuni di quei frati sino alla porta della Chiesa. Come fu fuori della porta, gli furono sparate contro alcune archibugiate a vento, per la qual cosa spaventato il Principe, ci tenendosi Morto, voltò a dietro, et fuggì in Chiesa alcuni di quei banditi gli corsero addosso, et si levò gran rumore, perché un frate di quelli che l'accompagnavano prese un bastone, che serviva per la stola della porta della Chiesa, et cominciò a dare a coloro, li quali intanto presero il Principe, il quale si 'difendeva, et si era attaccato con le mani alla porta della Chiesa, et gli porsero un fazzoletto alla bocca, et lo portarono in una carrozza a sei cavalli, che era dell'Imbasciatore di Spagna, et lo menorno via. Fu trovato alla porta della Chiesa il ferraiolo con il pottone strappato, il collare, la spada, et il pugnale. Di questa cosa fu molto da dire per Roma, dell'ingiuria fatta al Papa, et dell'offesa fatta all'immunità ecclesiastica. Onde fu Giulio Pezzola scomunicato, et postagli la taglia di quattro mila scudi. Et poi si seppe che Pezzola riaveva consegnato quel Principe al Castellano dell'Aquila, et aveva ricevuto sei mila scudi per quel fatto.

Il Governatore di Roma, Spada, fornisce maggior particolari: " Sabato a notte vigilia del Santissimo Natale del Redentore circa le 5 ore, mentre il Principe di Sanz usciva dalla Chiesa di S. Andrea delle Fratte, non molto lontana dall'abitazione del signor Ambasciatore, dove era stato artificiosamente condotto da un servitore sotto pretesto di parlare con un paggio fuggito di sua casa, il Pezzola assaltò con 10 o 12 de'suoi uomini il detto Principe, il quale subito diede a dietro per ritornare in Chiesa, e dagl'avversari fu sparato un terzarolo per fermano che non lo colpì, et essendo assai prossimo a rientrar in Chiesa, per aver già presa la stuora, che era alla porta d'essa, fu sopragiunto dal detto Pezzola ed altri che, non ostante il clamore de'frati che per difendere l'immunità della Chiesa, concorsero allo strepito, violentemente lo presero e condussero verso la casa del signor Ambasciatore, e poco appresso postolo in una carrozza a sei cavalli, seguitate da gente a cavallo, uscirono da Porta Pinciana alla volta di Lamentana e quindi al Moricone e Montorio e se ne passarono in regno con tanta velocitk, che non fu possibile arrivarii, se più tosto non vogliamo dire che fosse voler divino che il Principe facesse fine miserabile come fece e perciò concorsero molte cose, acciò non potesse essere aiutato. Si considera dunque che il caso seguì alle 5 fiore di notte in tempo che ognuno sta vigilante, et in moto. Il Caporale de sbirri di quel Rione fu in 5. Andrea un hora doppo il fatto, e non ne seppe cosa alcuna. Alcuni amici e parenti del carcerato Principe n'cbbero notizia alle 9 e non fecero darne conto, nè al Governatore né ad altri; finalmente un amico del Castiglione sapendo che il superiore era andato a 5. Pietro come Canonico al Mattutino Ct Messa della notte, va colà per trovarlo senza prima informarsi se fosse tornato a casa, come era tornato; sà da persona a Palazzo, che l'aveva veduto, che era a casa, viene e trova che ha cominciato la Messa nell'Oratorio della Chiesa nuova, sicché non poté darli conto di questo successo, che alle 18 fiore; il Governatore vuoi subito mandare alle Porte, per haver notizie che siano passate comitive di gente armata per andar fuori, non trova nè Notari nè Sbirri, per essere in quella mattina dispensati dalla continua assistenza dell'Offizio, per poter assistere alle funzioni spirituali et ecclesiastiche. Finalmente fatta diligenza alle Porte, et havuta nuova che da Porta Pinciana era uscito alle 12 riore una carrozza di campagna dell'Ambasciatore di Spagna con gente armata dietro, spedisce un Corriere al Governatore di Rieti perché ponga guardie a i passi et fermi li malfattori et il Principe e spedisce tutti e due li Bargelli di campagna acciò seguitino la traccia della carrozza, senza dimora, e vadino sino in Regno, camminando quando fosse anche bisogno far crepare li cavalli. Il Governatore di Rieti ebbe l'avviso in tempo, e pose le guardie per tutto eccetto che al Ponte S. Martino dove passarono, scusando che fosse giurisdizione di Faffa, non sua, I sbirri non prima fatto si piantarono in un osteria a giocare; e pure se seguitavano conforme à gli ordini che bavevano, trovavano nello stato ecclesiastico i delinquenti affaticati e sepolti dal sonno. Chi dunque non attribuirà ad una fatalità, anzi a volontà di Dio, un corso di tanti accidenti, che fecero perdere la vendetta di così temeraria azione?" .

Merita far notare come, giunta la carrozza con la scorta armata a porta Pinciana, trovò il passo aperto e incustodito.

Senza doversi fermare i fuggiaschi poterono quindi proseguire la loro corsa viaggiando per tutta la notte; a giorno inoltrato entrarono in Borghetto e alloggiarono tutti nella capace dimora del rapitore.

A Roma, intanto, non si parlava d'altro. Il Papa, irritatissimo, volle che subito si istruisse un processo per stabilire e chi spettasse la responsabilità di un'azione tanto audace. Il suo sdegno non era tanto per la falsità con cui agi I] bandito nei suoi confronti, quanto per tutte quelle numerose, incredibili, strane coincidenze che favorirono la cattura, a organizzare la quale doveva essere stata una persona potente. E il Papa ben sapeva chi fosse; aveva fiducia che dal processo si sarebbero potute raccogliere prove schiaccianti contro l'ambasciatore spagnolo, Marchese di Castei Rodrigo.

Ma, come accadde e accadrà sempre, dal processo non se ne levò alcun costrutto - scrive l'Adernollo perché non si volle andare fino al punto cui bisognava spingersi per trovare i principali colpevoli nella famiglia stessa del Marchese di Castei Rodrigo, ambasciatore di Spagna, il quale anzi, ridendosi dei processi papali, seppe a tempo far sparire gli avanzi defla rea azione che avrebbero potuto comprometterlo". Infatti, per impedire che venissero chiamati a testimoniare alcuni uomini del Pezzola chè erano rimasti nel suo palazzo, l'Ambasciatore li fece notte-tempo condurre a Fiumicino e imbarcare per Napoli.

Da un dispaccio del residente toscano, riportato dallo stesso Ademollo, si apprende che venne pubblicato un monitorio contro il Pezzola e i suoi uomini, tutti nominati espressamente; due soli nomi rimasero in bianco e si diceva che fossero del figlio del Castel Rodrigo e del Maestro di Camera dell'Ambasciata, accusati entrambi di aver partecipato personalmente alla cattura.

Frattanto, in Borghetto, il Pezzola, in attesa di ricevere ordini, teneva in stato d'arresto il nobile prigioniero. Trovandosi tra le mani una così preziosa carta, studiava di giocarla nel modo migliore per trarne il maggior vantaggio possibile. Disposto a tradire anche la Spagna, fece intendere ai Sanz di non aver nessuna difficoltà a consegnarlo sano e salvo al governo francese dietro compenso di una grossa somma di danaro.

Si stava trovando un possibile accordo tra le due parti, quando giunse in Borghetto un messo inviato dal Barberini, il quale veniva ad offrire ventimila scudi in cambio della immediata consegna del Principe. Il Pezzola cercò, sul momento1 di temporeggiare, facendo credere al messo di aver già consegnato il prigioniero; nello stesso tempo mise al corrente il Sanz informandolo che data l'appetitosa offerta per liberarlo, contro i seimila scudi per catturarlo, si dichiarava deciso a rimetterlo nelle mani dei Barberini, chiedendo a lui di aggiungere qualche cospicuo dono personale.

Il Sanz rilasciò una carta, con la quale prometteva, appena fosse stato liberato, di assegnargli un vitalizio di 100 scudi al mese e donargli tutte le gioie che aveva a Roma; adottare un figlio del Pezzola e far sposare ad un altro la propria figlia Atonia; donargli inoltre una terra e tenere per sempre con se lo stesso Giulio "procurando ogni suo aumento e grandezza oltre alla grazia dei Barberini"

Nel Memoriale il Pezzola sostiene che nonostante le vantaggiose offerte ricevute egli "eseguì i suoi doveri come fedele e reale vassallo" La realtà fu ben altra.

Stando alla testimonianza del Rivera, il quale, attingendo da documenti presso di se, precisa che il Viceré di Napoli fece recapitare tempestivamente al nobile Girolamo Rivera l’ordine di prendere in consegna il prigioniero e condurlo nel castello dell’Aquila, perché informato delle offerte e lusinghe al Pezzola dai Barberini, temeva che quello, avido di denaro, potesse venir meno all’impegno preso come effettivamente sarebbe accaduto.

Il Sanz fu trasferito, in seguito, a Napoli dove giunse il 7 gennaio 1640. Processato sommariamente, venne giustiziato nella pubblica Piazza, venerdì 14 gennaio. Aveva 32 anni.

Al Pezzola che si aspettava molto da questo affare, non rimase altro che l’odio dei Barberini e la sostanziosa taglia che gli pendeva sul capo.

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