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FATTI E BRIGANTI A MONTENERO DI BISACCIA

da: http://www.monteneronline.it/storia/storia1.htm

Fatti e figure notevoli dal 1800 al 1859

Fatti e figure notevoli - Gli speranzisti - La guerra del 1859

Fatti e figure notevoli nel 1860

Le reazioni - Plebiscito - Piemontesi e Garibaldini

Fatti e figure notevoli nel 1861 - Reazioni e Brigantaggio

Presa di Roma - Morte di V. Emanuele II e di Pio IX - Fatti e figure dal 1866 al 1878

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FATTI E FIGURE NOTEVOLI DAL 1800 AL 1859


Dal 1806 che Napoleone I oppose agl'Inglesi il famoso "blocco continentale" per impedire loro l'accesso nei porti d'Europa e quindi lo smercio dei loro prodotti e dei generi coloniali, la Torre di Montebello era guardata da un drappello di Guardie Civiche di Montenero e dei paesi circonvicini, per impedire lo sbarco degli Inglesi e dei Corsari che sotto la loro bandiera infestavano l'Adriatico. Alla foce del Tecchio avveniva non di rado lo sbarco di merci inglesi, che di contrabbando s'introducevano nel Regno. La moglie di Gioacchino Murat, Carolina Buonaparte, mentre fu regina del Napoletano esercitò su larga scala tale contrabbando e, per mezzo di un Ufficiale dell'Esercito, nativo di Campomarino, Costanzo Norante, in questi paraggi, dalla foce del Trigno a quella del Fortore. L'altro posto di guardia permanente era nella Torre di Petacciato, guardata dai militi della Civica di Guglionesi. Da che gl'Inglesi s'impossessarono di Lissa nel 1811 tentarono diverse volte di sbarcare nei pressi di Montenero, e le guardie monteneresi ne li tennero lontani o li ributtarono a fucilate. Gl'Inglesi tiravano cannonate, le cui palle or sì or no giungevano oltre la spiaggia: i monteneresi si riparavano dietro rialzi di arena che facevano da trincea, lungo la riva, e di lì sparavano. Sbarcarono una volta al Tecchio in più decine, assalirono la Torre di Petacciato ove ammazzarono un certo Gizzi, Guardia Civica, e a tamburo battente avanzavano verso Montebello. I monteneresi bravamente, e ferendone qualcuno, li costrinsero a ritirarsi sui battelli, per raggiungere i quali dovettero alcuni percorrere a nuoto buon tratto di mare. Le palle inglesi raccolte sulla spiaggia nei pressi di Montebello erano a Montenero adoperate nei giuochi di Carnevale. Gran carestia ci fu nel 1817: il grano salì sino a ducati 24 la salma (L. 102) ed il granone a ducati 17 (L. 71,25). Oltre i tanti del paese che andavano accattando, vi giungevano a torme i poveri d'altri luoghi, specialmente montanari abruzzesi. A primavera cominciarono a sfamarsi d'erbaggi; e ne morirono molti allora, e poi sempre più nell'estate, tanto che i morti a Montenero giunsero a 560. Non s'era provata così dura fame nel 1763 e 64, quando una gragnuola sterminatrice e generale caduta l'11 giugno del 1763 nell'agro di Montenero distrusse completamente i campi a cereali, tanto che nel maggio del 1764 il grano salì a ducati 16 la salma (L. 68) e l'orzo, le fave e il granone a ducati 9 (L. 38,25). Il popolo sentiva imperioso il bisogno della libertà e delle riforme. La rivoluzione aveva scavata la fossa al dispotismo. Il servo di ieri non tollerava più le catene, si ribellava ai soprusi, alle vessazioni, alle prepotenze dei signorotti. "A lu cafone corna e bastone", questo era il ritornello allora ricorrente sulla loro bocca. Non più cieco, il popolo, lavorato dalla propaganda della grande rivoluzione, reagiva ad ogni iniquità. L'idea di una patria libera, indipendente e democratica si allargava, conquistava le masse. Esponenti dell'agitazione patriottica ed umanitaria erano i professionisti, che si tiravano dietro anche artieri e proprietari tra i più intelligenti. Solo il contadino, abbruttito e incosciente, rimaneva attaccato al vecchio regime. Della rivoluzione del 1820-21 gli effetti in Montenero si risentirono non meno che negli altri piccoli Comuni della provincia. La setta dei Carbonari v'aveva non piccolo numero d'affiliati d'ogni classe. La parte più eletta della cittadinanza: il medico, l'avvocato anche il giudice, il parroco, si riuniva nelle farmacie. Qui potavano discorrere del più e del meno, scambiarsi idee, illuminarsi scambievolmente e... divertirsi. Le farmacie si trasformarono in circoli politici in cui persone della stessa fede fraternizzavano. La polizia borbonica, ritenendo tali riunioni pericolose e sovvertitrici dell'ordine pubblico, cominciò a proibirle e a perseguitare il farmacista ed altri professionisti. Tuttavia gli amici, i compagni, come si dicevano, continuavano a riunirsi nelle case, negli ospedali, nei palazzi, nelle cascine, nelle sacrestie e perfino nelle caserme. Così sorsero le Società segrete, tra esse quella dei Carbonari, i cui membri non erano che gli antichi patrioti della Repubblica Napoletana cresciuti di numero per l'adesione dei giovani. Nel 1837 il colera morbus fece in Montenero 365 vittime, dal 29 giugno all'8 agosto. Il primo ad essere attaccato fu D. Giuseppe di Vito fu Polidoro. In ogni famiglia erano costernazione, pianto, lutto. Alcuni si allontanarono dal paese per starsene in campagna o in altro Comune. Si ricorda che D. Zenone Sacchi, essendo con la moglie e coi figli andato a Montecilfone, di dove era la moglie stessa, appena giunti morirono lei e lui. Di quanti erano attaccati dal male morivano quasi tutti. I cadaveri, poichè a quel tempo si seppellivano ancora in Chiesa, si fu costretti, dato il gran numero, a mandarli a gettare in due grotte presso la Cappella di Bisaccia e propriamente verso il Tratturo. I più ragguardevoli venivano però seppelliti in Chiesa. Non campane a morto, non funerali, non funzioni in Chiesa: nella Piazza lì presso si era eretto un altare, ove si celebrava a cielo scoperto sino a quando il morbo funesto non cessò del tutto. Nella fretta di sgombrare le abitazioni dei cadaveri, si dettero parecchi casi di morte apparente; onde ci furono quelli che, portati a seppellire, tornarono in vita e, per non essere stati a tempo soccorsi, morirono di terrore. Una tale Colucci, collocata nella cassa mortuaria, sul punto di portarla fuori da casa, dette segni di vita: così scampò dalle mani dei becchini e morì vecchissima. Nel 1855, che il colera fece strage a Vasto ed altrove, a Montenero non ne morirono molti, cosicchè il morbo fu appena avvertito. Assunto al trono Pontificio Giovanni Mastai Ferretti col nome di Pio IX, i primi atti da lui compiuti come sovrano nel 1846: amnistia per tutti i detenuti politici e riforme governative in senso liberale, destarono le più liete speranze nei liberali di tutta Italia. Per conseguenza il Governo Borbonico, insospettito, temeva ribellioni e sovvertimenti, e la Polizia era in moto. Ci fu nel settembre del 1846 una denunzia alla Polizia, nella quale si dava l'allarme per prevenire moti rivoluzionari che si affermava prepararsi in Guglionesi. Si designavano capi il Dott. Giacomo De Santi, l'avv. Adamo Massari, Adamo Pizzi, Giuseppe De Lellis. Che costoro si mostrassero entusiasti di Pio IX e si tenessero certi che il Governo si avesse a cambiare di assoluto in costituzionale, l'avevano mostrato apertamente, ma che avessero organizzato una ribellione in modo da tenersi sempre pronti e che si fossero finanche preparate le armi e le bandiere tricolori, non era affatto vero. Ai primi di novembre un distaccamento di truppe con artiglieria e cavalleria piomba su Guglionesi e si minacciava di cannoneggiarla. I quattro su nominati si erano posti in salvo fuggendo a nascondersi. A Montenero si rifugiò il Massari, il Pizzi tenevasi in campagna, il De Santis e il De Lellis se ne andarono altrove. Le ricerche per averli in mano furono senza risultato, e poi avendo il Vicario del Vescovo di Termoli, Colapietro, interceduto e dato assicurazione sotto la sua responsabilità, che nulla di quanto denunciato era vero ma era tutta una calunnia, le truppe, non molto dopo, lasciarono Guglionesi. Il Colonello Catrofiama, che le comandava, vene a Montenero con alquanti dragoni a cavallo; vi si trattenne una serata, ed alloggiò in casa del medico Luigi Palombo. La mattina del 16 novembre partì per Vasto, dove era già arrivato un distaccamento di 400 uomini di cavalleria e 240 di fanteria. Nel passare da Portamancina pel Tratturo rasente la Portella, sgridò alcuni, tra cui l'allora chierico Enrico Argentieri, perchè al suo passaggio non si erano levato il cappello. Quì rimase con pochi cavalieri da 5 a 6 giorni il tenente Diaz. La polizia era in faccende; e anche da Montenero erano arrivate delle denunzie a metterla in moto. Gli autori di cotesti rapporti si disse essere stati Carlo di Tullio e Quirino Ricci. Che Ferdinando II di Borbone aveva promesso la costituzione il 27 gennaio 1848, giunse qui notizia ufficiale il 2 febbraio. Ci furono dimostrazioni di gioia da parte dei pochi veri liberali e ce ne furono anche da parte degli arruffoni, che, come sempre in simili casi, sperano salire, cavar profitto, pescare nel torbido. Parecchi di costoro corsero al campanile e si diedero a suonare le campane a festa, s'invitò l'Arciprete, De Bellis D. Antonio, a voler cantare il Te Deum, ed egli non si fece pregare troppo. La Chiesa s'empì subito di curiosi d'ogni età e sesso e, dei galantuomini, quasi tutti i funzionari: Sindaco, Eletti, Decurioni, Cancelliere (oggi Segretario), il Sottocapo Urbano non il capo Urbano. Cantato il Te Deum, l'Arciprete non mancò di improvvisare un breve discorso elogiando il Re. Al grido di "Viva il Re!" si riuscì di Chiesa. D. Carminantonio Sacchetti, che si mostrava dei più entusiasti, non s'asteneva di manifestare il suo maltalento contro certuni. si fece presso il Sottocapo urbano prof. Ambrogio Carabba, e con mal garbo gli disse: "Via quell'insegna del dispotismo". Gli strappò dal cappello la coccarda rossa, che era la divisa della Guardia, e gettatala nel fango vi diede su con la punta del piede insozzandola, e la lasciò lì. Il Carabba finse o ritenne quell'atto, ingiurioso e peggio, non fatto a sè ma al governo dispotico, che si credeva ormai finito. Ma quell'atto costò ben caro poi a D. Carminantonio, e assai più gli sarebbe costato se il Carabba non avesse cercato di attenuarlo, anche con suo rischio, presso l'istruttore del processo che se ne fece e presso le altre Autorità poliziesche, nel tempo che imperversava la reazione (scorcio del 1849 e dopo). Il Sacchetti e suo cugino Liborio Sergente, nativo di Vasto e ammogliato con la signorina Maria Giuseppa di Pietro, partirono subito per Campobasso, dopo la pubblicazione qui della Costituzione dell'11 febbraio e ne tornarono anche subito dopo procacciatasi la nomina di Capitano della Guardia Nazionale l'uno, e di Luogotenente l'altro. Comparvero la domenica a mattina, insigniti il cappello di coccarda, fatta di fettucce a nastri rossi, bianchi e turchini, svolazzanti. Passando per l'atrio della Chiesa, sorridenti e festosi, compiaciuti di se stessi, facevano mostra del loro grado. Il prof. Gaetano Carabba, incontrandoli all'ingresso della Chiesa, non meno di loro sorridente e festoso li salutò, congratulandosi con essi. Il Sergente, che al primo vederlo aveva mostrato in viso un che di beffardo, restò un po' sconcertato al complimento del Carabba, da lui tenuto per uno di quelli che avversavano la nuova forma di governo mentre ne era entusiasta di cuore, ed il fratello Ambrogio più di lui. A venti anni e più sentiva e capiva più del Sergente, che appena sapeva leggicchiare, e non meno del Sacchetti che pur aveva un certo nome d'uomo istruito. Abolita la Guardia Urbana e costituitasi la Guardia Nazionale, ci fu in Chiesa una funzione per giuramento: le guardie, con bandiera tricolore in testa, raccoltesi e schierate lì, dopo il canto del Te Deum, tenendo aperto l'indice, l'anulare e il pollice della mano destra e chiuse le altre due dita, a simboleggiare la S.S. Trinità, ad alta voce ripetendo la formula, gridarono all'unisono: "lo giuro". Nella primavera di quell'anno si vociferò essersi formata una piccola comitiva di ladri di cui faceva parte, e forse era capo, un prete di Guglionesi, Ionata. Costoro catturarono Pasquale Luciani, esigendone pel riscatto più centinaia di ducati. La famiglia di costui andò in cerca di danaro a prestito, ed una parte ne ebbe da D. Nicola Maria Iavicola fabbricante di cera. Rilasciato, il Luciani sporse querela contro Ionata ed altri ignoti perchè, diceva, travestiti, ma si sospettava essere non tutti Guglionesani, e tra essi due o tre monteneresi. Quando il processo fu istituito l'autorità giudiziaria volle fare un esperimento di fatto. Fece in una stanza rinchiudere buon numero di preti, fra cui Ionata; e poi vi fece entrare il Luciani per vedere se costui riconoscesse fra gli altri il prete che lo aveva catturato. Egli riconobbe ed additò Ionata. E cotesto prete fu condannato a molti anni di carcere e non fu messo in libertà che nel 1860 per l'indulto che fu dato da Garibaldi. E' noto che egli aveva dato incarico ad una commissione affinchè fosse compilata una lista dei detenuti politici e di altri che meritassero di essere indultati; e vi fu compreso, per raccomandazioni, il prete Ionata considerato reo politico. Nell'eccidio del 15 maggio avvenuto in Napoli all'apertura della Camera legislativa, durante il sanguinoso conflitto tra i cittadini e le truppe regie specialmente dei reggimenti svizzeri di cui il Borbone teneva assoldati ben 12.000, si trovò D. Raffaele Iavicola, che era andato a farsi visitare da quei medici per una malattia che gli si era manifestata. Anch'egli, come asseriva, aveva combattuto sulle barricate, e ne raccontava tante particolarità. Dopo questa fatele giornata, le cose sarebbero andate di male in peggio, e la nuova forma di governo non avrebbe avuto durata. Il che poi si avverò sia per i disastri dell'esercito Piemontese guidato da Carlo Alberto e dei volontari di tutte le altre province italiane, sia pel richiamo delle truppe borboniche e pontificie che erano partite per l'alta Italia a congiungersi con l'esercito di Carlo Alberto. A Montenero non si faceva più con regolarità il servizio giornaliero delle Guardie Nazionali. Il Capo e Sottocapo, Liborio Sergente e Carminantonio Sacchetti, lasciavano fare quel che le guardie volevano, così che fu chiuso il corpo di guardia. Ma questo lasciar andare tornò di danno allo stesso Capo. Costui si era bisticciato col Canonico D. Vincenzo Palombo di Luigi, e il giorno 13 novembre, dopo che il Sergente insieme a Nicolangelo Sozio aveva fatto bisboccia in casa di un vinaio, mangiando maccheroni conditi d'olio e d'aglio e bevendo non poco, s'imbatterono essi col Canonico Palombo. Tornarono a bisticciarsi; il Sozio dette uno schiaffo al canonico. Andò costui a casa, si armò di stile, ne fece parola al padre e allo zio Antonio, e corse in cerca del Sergente e del Sozio. Trovatili nel largo presso la chiesa, in vicinanza della casa di Antonio Valerio - ora del dott. Giocondo - e della farmacia di Aurelio Sacchetti, si avventò contro il Sozio che si difese con una chiave ben grossa, quella della Segreteria Comunale, ed essendo accorso il Sergente, ebbe costui un colpo di stile al ventre e ne morì il giorno appresso, la mattina verso le otto. Col Canonico erano accorsi anche il padre e lo zio per difenderlo; e tutti e tre furono processati poi, il primo come reo principale e gli altri due come complici. Il Canonico fu condannato a 20 anni di reclusione. Vi stette finchè per l'indulto di Garibaldi fu messo in libertà nel 1860. Lo zio e il padre furono assolti. Intanto Luigi, per gli strapazzi sofferti e dispiaceri, poco meno di un anno sopravvisse a tanta sciagura e morì il 2 novembre del 1849. In quel torno la figlia di lui, D. Ersilia, maritata a Gissi in Florio Masciarelli, tra pel dolore di queste disgrazie di famiglia e per esserle morto un bambino, venne in tale disperazione che si precipitò da un balcone della casa nel sottoposto precipizio e vi restò morta, in Gissi. La costituzione data da Ferdinando II nel 1848 era di 92 articoli. Erano due le Camere, una dei Deputati rappresentanti del popolo da cui venivano eletti, e l'altra dei così detti Pari eletti dal Re a vita. Sciolta la Camera elettiva dopo il 15 maggio, fu riconvocata nel 1849. Ma dopo la battaglia di Novara, avendo l'Austria rioccupata la Lombardia e poi la Venezia, Ferdinando sciolse di nuovo la Camera, nè la riconvocò più. Intanto era con parte dell'esercito andato verso Roma in aiuto dei partigiani del Papa contro Garibaldi, il quale respinse i borbonici e inseguì il Re sino a Fondi, e fece tale resistenza al Generale Carrabba che era col Re, da quelle parti, che lo steso Generale fu costretto a ritirarsi. Roma poi fu assediata dai francesi e da un corpo di spagnuoli, e presa. Nelle province napolitane si era sossopra, e la polizia borbonica si dava a perseguitare tutti i liberali e li incarcerava e sottoponevano a processi. A Montenero ci fu un tale Carlo di Tullio, il quale girava attorno con un foglio in cui si supplicava il Re di abolire la costituzione, e costringeva tutti i notabili a sottoscriverlo. Nicolamaria Iavicola, con parecchi altri, non solo non volle firmare, ma essendo supplente (Vice Pretore) sequestrò quel foglio. Ne seguì che tanto lui quanto gli altri che non lo firmarono furono puniti, quale col carcere come D. Peppino Sacchetti e quali coll'esilio in diversi luoghi: D. Carminantonio Sacchetti nel Convento di S. Elmo a Guglionesi, D. Raffaele Iavicoli a Isernia; D. Ambrogio Carabba fu arrestato e condotto a Campobasso dove l'Intendente (ora Prefetto) che vi era, Domenico Lopane, lo sottopose alla sorveglianza e lo fece rimanere parecchi giorni a sua disposizione. Finalmente lo rimandò a casa sotto mandato; onde non poteva assentarsi dal paese che con un foglio di via con ordine di presentarsi al Sindaco o Giudice (ora Pretore) o ad altre Autorità di polizia, che dovevano firmare quel foglio e all'andata e al ritorno, e sorvegliare lui, come si fa ora di un ammonito. Si formò poi un libro presso la polizia del Capoluogo della provincia nel quale erano annotati col nome attendibili tutti i sorvegliati. Essi rimasero per tal modo esclusi da tutte le cariche pubbliche; e tale stato di cose durò parecchi anni. Si ebbero più volte delle perquisizioni domiciliari e prima l'ebbero D. Carminantonio Sacchetti ed il fratello Luigi, e furono processati per armi che si trovarono nelle loro case. Ne ebbe una D. Ambrogio Carabba, accusato di tenere scritti e libri proibiti e sovversivi, ed uno schioppo. Furono sequestrati un libro di poesie del poeta Giuseppe Regaldi, libro che aveva nella prima pagina effigiate due bandiere tricolori, e un libretto manoscritto, diversi componimenti che in quel tempo aveva fatto. Il giudice che venne a fare quella perquisizione era un certo Lombardi, e il cancelliere, Trotta. D. Ambrogio ch'era assente si trovò in quel punto a ritornare e fu arrestato. Egli era professore nelle scuole secondarie esistenti allora in questo Comune, dal 1838, e fu destituito. Don Carminantonio Sacchetti fu anche denunziato per atti di disprezzo contro il re Borbone. Anche il nipote Federico Sacchetti di Luigi fu denunziato e processato per aver nominato con parole sconce il Re nello scacciare da un terreno di sua proprietà un branco di pecore del gregge di Casa Reale che dagli Abruzzi tornavano in Puglia.

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FATTI E FIGURE NOTEVOLI - GLI SPERANZISTI - LA GUERRA DEL 1859

Si era ormai al 1859 e la guerra che si combatteva nell'alta Italia dal Re Vittorio Emanuele II alleato all'imperatore dei Francesi Napoleone III per la indipendenza d'Italia contro l'Austria, teneva in grande agitazione la Corte di Napoli e tutti gli affezionati di essa e specialmente la polizia che si dava molto da fare contro i moti liberali. In Montenero spadroneggiava la famiglia Ricci: Quirino che era Capo Urbano, D. Nereo che aspirava all'Arcipreura, e Vincenzo loro padre (già Cancelliere di Giudicato Circondariale, ora Pretura Mandamentale) che era Conciliatore. La posta veniva da Civitacampomarano ogni tre giorni. Si attendeva con grande ansietà per sapere le notizie della guerra da quando (4 maggio) si combatteva nell'alta Italia. Due erano i giornali che si stampavano qui allora: La Gazzetta Ufficiale del Regno e L'Iride, e da questa più che da quella si riferivano le particolarità di quella guerra. Le vittorie dei Piemontesi e Francesi per quanto esaltavano e rassicuravano gli animi dei liberali, altrettanto scoraggiavano e prostravano i borbonici. Dopo il 24 giugno, quando a Villafranca si venne ai preliminari di pace, cominciarono questi a rialzare la testa, e più quando essa fu conclusa a Zurigo. Nella classe dei contadini ed in quella degli artigiani numerosi erano i borbonici i quali speravano che tutto sarebbe andato a monte allora. E poi, quando morto Ferdinando II il 22 maggio, Francesco II succedutogli ristabilì o richiamò in vigore il 26 giugno la costituzione del '48, pure speravano che non sarebbe durato tale stato di cose e si sarebbe tornato all'assolutismo. Ad essi artigiani fu dato il nomignolo di speranzisti e al luogo presso la strada rotabile che mena ora alla stazione, nel quale ogni sera e mattina venivano a sdraiarsi e confabulare, è restato il nome di Colle della Speranza. Il 19 maggio 1859 giunse la statua di S. Nicola fatta da Michele Falcucci da Atessa. Il 22 si fece la processione con la statua di S. Nicola preceduta dal Capo Urbano D. Quirino Ricci in grande assisa, soprabito all'ufficiale, sciabola da cavalleria, soufflè con pennacchione e pennone rosso e da una truppetta di urbani. La musica era di pifferi. S'incominciò il settenario ordinato a tutte le diocesi dal Sommo Pontefice regnante Papa Pio IX, pro pace, quando il cannone non ancora incominciava a tuonare presso la Sesia. Il 24 maggio i fogli portavano che la malattia del Re Ferdinando II s'era aggravata a segno che il 20 gli fu ordinata l'estrema unzione. Dalla Toscana era fuggito il Granduca con la famiglia, e lo Stato si era costituito in governo provvisorio sotto il Generale Ulloa per volere di Vittorio Emanuele. Armate di terra e di mare francesi in movimento, Napoleone III a Torino. Tutto il mondo era in scompiglio. Il Re Ferdinando II trapassava il 22 all'una e mezza pomeridiana. Il 29 maggio si celebrarono i funerali: la sera del 28 sull'ave le campane rintoccarono a lungo e non mancò il rullo del tamburo innanzi al Corpo di Guardia e per l'abitato. Sul tumulo, eretto in mezzo alla Chiesa, si videro due iscrizioni l'una fatta da D. Nereo Ricci, l'altra da D. Giuseppe Monaco. Il 30 maggio cominciarono le processioni delle rogazioni. Gli speranzosi o speranzisti, con speranze in gran parte svanite, al monarca Francesco II si appellavano per amnistia. Dal figlio di una Santa Regina - la tanto amata e rimpianta Cristina - s'aspettavano di essere governati paternamente.

Aria di guerra europea - La guerra si concentrava nei campi di Lombardia, dove Napoleone III si trovava a comandare l'esercito francese. Tutti gli Stati d'Europa seguitavano ad armarsi: la Germania aveva 300.000 e più uomini in piede di guerra, gli altri Stati minori, oltre la Baviera e l'Austria, 800.000. Parigi vide 40.000 volontari avviarsi per l'Italia.

Le Guardie giurarono fedeltà e obbedienza al Re Francesco II - Il 2 giugno 1859, innanzi alla casa Comunale si raccolsero circa venti guardie urbane, il caporale di gendarmeria con altri gendarmi, e la guardia d'onore e Cancelliere Don Michelangelo Sozio: questi tre in uniforme di gala col capo urbano e i due gendarmi prestarono giuramento di fedeltà e di obbedienza al Re Francesco II.

I funerali del Re - Il 7 giugno si celebrarono per la quarta volta i funerali. La funzione durò oltre due ore. Il tumulo era carico di ceri, con quattro iscrizioni, tra cui una di Don Nereo Ricci.

La presa di Milano - Il 13 giugno 1859 vi fu la banda di Bomba che suonò molti pezzi la sera davanti al caffè del Genio, cioè dal Cascettaro, sulla Portella. Si lesse sul foglio ufficiale la presa di Milano ad opera dei Sardo-Franchi (6-9). I milanesi erano insorti il 4, quando venne affisso pei canti della città un proclama del Generale tedesco, che comminava ai comandi ribelli ed acclamanti Vittorio Emanuele e Garibaldi pene severissime. Lo stesso giorno si legge nel foglio l'indulto di tre anni per delitti comuni, con delle eccezioni, ed amnistia generale per reati politici del 48-49. Si cominciava a fare qualche cosa finalmente...

Inviti al principe Luigi di prendere la corona - Erano state raccolte 700.000 firme dal partito del principe Luigi, secondogenito del defunto Re. Alcuni furono arrestati, fra costoro il Sottointendente di Città S. Angelo. Sulla lista vi erano molti Vescovi, che il 16 maggio si erano recati a Caserta per visitare il Re Francesco presso a morte e facendo atti di condoglianza gli dicevano: "La madre di V.A. è santa; V.A. partecipa, per indole ed educazione, di quella santità; lascia l'A.V. le cose del mondo, e procuri che se ne pigli briga il Principe Luigi". Di lì a poco giungeva il comandante del forte di S. Elmo con quella lista delle 700.000 firme e i provvedimenti da prendersi. La sera del 7 luglio venne Michele Falcucci a portare la statua dei Miracoli fatta da lui a devozione del sagrestano Giacinto di Vaira per ducati 40. Il giorno dopo fu portata in processione dai canonici delle due Confraternite e da lunghissima fila di devoti con suono di campane e marce della banda di Bomba. Il raccolto di quell'anno fu pessimo; vi fu chi non raccolse neppure la semenza. La guerra veniva seguita dalla fame, e la fame dalla peste.

Festa per l'Avvento del Re al trono - Il 25 luglio 1859 sul mezzogiorno giunse al Sindaco un corriere del giudice con un'ordinanza unita a quella dell'Intendente, nella quale era riportato l'ordine del Ministro dell'Interno che disponeva doversi fare tre giorni di gala con Te Deum ed esposizione del Santissimo per l'avvento al trono del Re, che faceva da Capodimonte solenne ingresso a Napoli. Quindi, alle ore 17, si riunirono delle guardie, il Sindaco Don Antonio Argentieri, il Cancelliere in uniforme di Guardia d'Onore, i due Gendarmi, alcuni degli impiegati della Casa Comunale e tutti si avviarono verso la chiesa col quadro del Re portato dal Sindaco, quello della Regina portato dallo eletto Don Francesco Paolo Iavicola, sfilando lungo la piazza di sotto per la Portanuova e la Portella gridando: "Viva il Re!" e poi innanzi la casa del Comune si dispensò ai poveri un cantaio di pane. Tutti i galantuomini intervennero in chiesa, tranne uno o due.

In onore della Regina Madre - Il 30 la sera, verso una mezz'ora di notte, il banditore, a suono di tamburo, andava per l'abitato gridando per ogni capo di strada e vicolo: "Ognuno metta fuori alle finestre lumi ad onore della Regina Madre. La Regina vedova Maria Teresa è stata dichiarata Regina Madre". E si videro luci più che nelle tre sere del 25, 26 e 27. La defunta Cristina madre del Re fu dichiarata dal Papa Beata serva di Dio. Il Marchese di Vasto appositamente per questo si recò in Roma e il giorno 24 che ricorreva la festa di S. Cristina Vergine, il Re entrava in Napoli.

Festa in casa Ricci - La sera si tenne festa in casa di D. Peppino Ricci al Palazzo. Vi parteciparono: D. Gian Leonardo De Leonardis, D. Paolo Paterno, D. Giuseppe Canonico Sozio, D. Luigi Gentile, D. Domenico Peta di Montecilfone, D. Peppino con la moglie e Venere Arpia loro figlia, D. Vincenzo.

Onomastico della Regina - La sera del 7 settembre 1859 - onomastico della Regina Maria Sofia - il corpo di guardia era illuminato, e lumi a parecchie finestre si videro lungo la piazza e altrove. Fu aperta la festa sull'imbrunire, con spari e suono di tromba ed evviva dal balcone della Casa Comunale.

Arrivo del Sottointendente - Sabato 24, a circa due ore di notte, arrivò inaspettato il Sottointendente Santoro D. Seniore, abruzzese, nativo di Pratola: un giovine sui 30 anni, piuttosto alto, robusto e asciutto della persona che ispirava simpatia. Avendo egli trovato la Casa Comunale occupata dal Giudice che vi era con la moglie dal 19, fu invitato a casa Sozio D. Michelangelo, dove andò ad alloggiare. Il 25, domenica, la mattina fece un giro d'ispezione per il paese, accompagnato da un piccolo codazzo di galantuomini. Visitò il fondaco dei Luoghi Pii che conteneva un 300 tomoli di grano e passò lì vicino, nel fondaco del Montefrumentario che conteneva sotto a 100 tomoli. Il giorno dopo volle andare a Ripalta dal Cavalier Canzano. Vi si trattenne la sera. La mattina del 27, dopo una breve visita al Curato Don Nereo Ricci, partì per Larino.

Don Nicola Capurso - La venuta del Sottointendente pare che abbia avuto lo scopo di indagare se quel Don Nicola Capurso di cui si voleva che Monsignor Vescovo fosse ricettatore, fosse nascosto in questi luoghi. Si sospettava forse che il Parroco e il Capo Urbano ne fossero a conoscenza. Fatto sta che il Parroco Don Nereo chiamato più volte dal Sottointendente a segreto abboccamento, fu veduto una volta inginocchiarsi ai piedi e udito ripetere il Confiteor. Cosa avveniva? Il secolare confessava il sacerdote? Mistero da Sant'Ufficio!... Ma del Capurso si parlava a lungo. E' stato un eroe da romanzo. Presente dappertutto, faceva prodezze d'ogni genere, crudeli e terribili, o generose e caritatevoli. Disponeva delle borse dei più ricchi pugliesi a beneficio dei poveri. Ora si vedeva vestito da prete, ora da mandriano, da guardiabosco, da bifolco. Penetrava dappertutto, fin nelle case ove era cercato a morte. La sua vendetta non v'era chi potesse fuggirla. Una specie di Carlo il temerario.

L'onomastico del Re e il genetliaco della Regina - Il 3 ottobre 1859 il suon del tamburo e della tromba e lo scoppio degli spari annunziarono sul tramonto la festa civile del domani: l'onomastico del Re e il genetliaco della Regina. Messa, esposizione del Venerabile e Te Deum, toselli nelle strade. ritratti e scritte di Viva il Re, ecc.; elemosina ai poveri a carico dei Luoghi Pii: così si facevano tutte le feste di quel tempo in quasi tutti i paesi del Regno.

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FATTI E FIGURE NOTEVOLI NEL 1860

Assemblamento sedizioso - Il 18 marzo 1860 il Giudice, il Cancelliere ed il Caporale di Gendarmeria, indotti dal Capo Urbano, fecero pure una perquisizione in casa del Carabba, dove lessero molte lettere di scrittori, di poeti, archeologi, storici, amici.

Menzogna del Capo Urbano - Il Capo Urbano Ricci supplicò il Re per avere una decorazione e una pensione millantando falsi meriti. Tra le altre cose, aveva affermato di avere arrestato in ottobre, presso la foce del Tecchio, alcuni ladri di animali. L'arresto era stato fatto invece da un Gendarme che era di guardia al Posto di Montebello. Il Capo Urbano per tale menzogna fu punito e per rivalsa egli minacciava congiure e altre diavolerie. Il 27 giugno 1860 al Sindaco, al Capo Urbano e al supplente veniva per corriere un'ordinanza del Giudice con la quale si dava avviso esservi una Costituzione. Il 2 luglio 1860 la posta portava notizia del nuovo Ministero incaricato della formazione dello Statuto Costituzionale.

La Costituzione - Il 3 luglio 1860 il foglio ufficiale tornò a riprendere l'aggiunta di "costituzionale" come dodici anni addietro. Ma era ridotto a mezzo foglio.

Tumulti a Napoli - Vi furono degli attentati: fu aggredito il Ministro di Francia che riportò delle ferite, e il Re si affrettò a mandarlo a visitare per S.A. il Conte dell'Aquila. In vari quartieri furono malmenati agenti di Polizia nei Commissariati; tutte le carte trovate furono bruciate in pubblico; De Spagnolis, famoso per inquisizioni e vessazioni, si diceva essere stato strangolato e con esso uccisi altri 20 in carica.

I Ricci sobillano i contadini - L'8 luglio 1860 (vigilia di S. Zenone) era venuta per la festa la banda di Casalanguida e i bandisti avevano la coccarda tricolore. La mattina per tempo si fece una processione a Bisaccia per impetrare la pioggia. Non vi fu molto concorso di popolo, ed il Capo Urbano D. Quirino Ricci, armato di schioppo, con patroncina e baionetta alla cinta, andò ad accompagnarvi il fratello D. Nereo, il Curato. Perchè? Per propalare che si voleva attentare alla vita del Curato. Menzogna. E poi volevano dare a credere ai contadini che i galantuomini, valendosi della Costituzione, volevano spogliarli, conculcarli, attentare alle loro figlie e mogli. E in certo modo riuscivano a insospettirli e metterli contro la Costituzione e contro i galantuomini.

Navi in alto mare - L'8 luglio 1860, sul tramonto, si videro legni per l'Adriatico; apparsi a Punta Penna scendevano giù qualche miglio lontano dal lido. Erano forse dodici o undici. Si videro per qualche ora quasi sempre allo stesso punto. Coll'imbrunire sparvero dall'orizzonte allontanandosi sempre più dal lido. Erano Francesi e Inglesi? Erano Napolitani? Austriaci? Si fecero le più diverse congetture. Ricci D. Peppino, dal balcone e poi sulla Portella, stava con altri a guardare col cannocchiale.

I contadini alla caccia del tricolore - Il 9 luglio 1860 si era in aspettativa della comparsa del Capo Urbano in assisa di gala. Egli aveva fatto bucinare tra i contadini che dai galantuomini volevasi innalzare la bandiera tricolore e fare subbuglio in chiesa. Nè l'una nè l'altra cosa era passata pel capo di nessuno, eppure i contadini stavano in allarme e quasi in collera, come se la bandiera tricolore fosse l'insegna della rivolta e la Costituzione una fandonia. E il Capo Urbano Quirino Ricci aveva osato dire ad alcuni cagnotti di guardia, che non andava lasciata la bandiera bianca nè la coccarda rossa, che essi non dovessero abbandonare il posto. Si videro rinnovate molte coccarde rosse; si minacciò di strappare quelle tricolori ai bandisti di Casalanguida: alcuni erano armati di poderose mazze, pronti a dar addosso ai galantuomini, se si fossero posti le coccarde tricolori. Raccolse per la messa cantata il Capo Urbano, a stento, una quarantina di guardie, e venne al lastrico della chiesa, non in gran tenuta sì bene coi panni giornalieri, comandò con voce tremante: "Posate le armi!" e soggiunse: "Ebbene andatevi a sentire la messa". Bella figura, dopo che alle guardie aveva fatto caricare a palle i fucili! Per tutto il giorno fece montare la guardia a una trentina che andavano per l'abitato e per la Portella pattugliando coi fucili carichi. Pareva che Montenero fosse in stato d'assedio.

La Guardia Nazionale - Il 10 luglio 1860 venne sul foglio la legge provvisoria istitutiva della Guardia Nazionale. Si era in attesa di un Ufficiale che la ordinasse e che ne affidasse l'esecuzione a Don Bonamico Sozio, come il notaio Don Giuseppe Nicola Ferraiuolo di Palata aveva, con una sua, annunziato a Don Michelangelo Sozio. Burla! Nelle cento assegnate a questo Comune dovevano essere le Guardie Urbane di buona condotta e la lista doveva essere fatta dal sindaco e dai Decurioni. Il 20 luglio 1860 venne un corriere da Larino mandato dal Sottointendente per mettere in funzione la Guardia Nazionale Provvisoria. Si era già fatta la lista della nuova guardia e fatte le terne degli ufficiali. Pel capo compagnia: 1) D. Carminantonio Sacchetti; 2) D. Romolo Barbieri; 3) D. Filoteo Marchesani; per capi plotoni: 1) D. Bonamico Sozio; 2) D. Paolo Paterno; 3) D. Raffaele Iavicoli. Si prestò giuramento per la Costituzione sull'Evangelo. A Napoli intanto moti reazionari e sangue, con evviva ed abbasso la Costituzione. Lo stesso in varie città della provincia. Diffuso malcontento, speranzismo di ritorno.

La festa di S. Teresa - Il 31 luglio 1860, festa di gala per ordine del Re. Luminarie al solito in quartiere, a qualche casa, p. es. a quella del Sindaco, scampanio, Te Deum, esposizione del S.S. Sacramento, parata della Guardia Nazionale non più Urbana.

Coccarde Tricolori - Palata era divisa in cento partiti, i contadini facevano malviso alle coccarde tricolori; obbligarono uno di qui, Tommaso Gabriele, a togliersela. Il 5 agosto 1860 Don Carminantonio Sacchetti come Capo Compagnia ordinò alle guardie che indossassero la coccarda tricolore. In altri paesi già alzavasi la bandiera al grido: Viva la Costituzione, l'Italia, Garibaldi, Vittorio! Per la prima volta, il 10 agosto, sventola pure a Montenero la bandiera tricolore. La maggior parte delle guardie intervennero alla parata e con la processione marciarono per l'abitato. Don Federico Sacchetti fu il portabandiera. Tutti si posero la coccarda. Il 16 in Lucito il Capo Compagnia Don Peppino de Rubertis e gli altri ufficiali con tutta la guardia si recarono in chiesa a far cantare il Te Deum; si tolsero dal Corpo di Guardia le effige del Re e della Regina che furono scompigliate da de Rubertis, ma il giorno seguente si dovettero rimettere al loro posto. Nella notte del 17 si andò cantando l'Inno di G. Carabba, musicato da Don Paolo Paterno. Gli speranzisti si sforzavano a darsi animo, ma ormai era vano sperare. Reazione del Principe Luigi sventata, e fuga di costui a Londra. Il 24 agosto a Palata da un gendarme fu organizzata una masnada che, al momento di procedere alla riunione del Collegio Elettorale per la nomina dei Deputati rimandata al 30 settembre, doveva far violenza su gli elettori galantuomini, e poi sacco alle case dei più agiati.

Don Carminantonio Sacchetti - Capo della Guardia Nazionale. Uomo di vasta cultura, si distinse nella matematica e nel latino. Fu socio corrispondente della Società Giovanile Letteraria di Larino, membro di parecchie Accademie; tenne diversi trattenimenti scientifici tra cui importante quello di Lanciano del 27 agosto 1831 alla presenza di Monsignor Don Francesco Maria De Luca, Arcivescovo della città e di molti dotti. Nel 1848, perseguitato dal partito borbonico, ebbe asilo dal padre guardiano del Convento dei Cappuccini di Guglionesi. Purtroppo nella carica era diventato peggio dei Ricci: si credeva superiore a tutti, dispotizzava ed imponeva leggi a suo talento. Tuttavia fu un benemerito della causa nazionale. Nel 1860, caduto il governo borbonico, fu nominato Sindaco e Capo della Guardia Nazionale di Montenero, e in compagnia del Capitano Volpi ebbe a sostenere aspre fatiche per la soppressione del brigantaggio e la sistemazione del nuovo regime. Garibaldi di Sicilia era passato in Calabria e il Ministero Costituzionale di Francesco II mandava agli Intendenti (poi Governatori ed ora Prefetti) ordini di arruolare una milizia di volontari sotto il nome di Gendarmi Ausiliari col premio di ducati 24 e grana 25 al giorno a ciascuno. A Montenero si andarono a iscrivere in Cancelleria circa una cinquantina. Intanto i Ricci facevano festa e tripudiavano per essere riusciti a tanto. E anche il giudice di Palata, Don Francesco Terzano, a ciò aveva contribuito. Quei volontari regi erano passati sotto Tavenna, Palata e Acquaviva ed erano andati gridando: Viva Francesco II, morte alla Costituzione e ai liberali! Istigavano i contadini che incontravano per quelle terre ad unirsi con loro. Dal Sottointendente fu spedita subito qui una colonna di oltre 150 Guardie Nazionali tra Larinesi, Montecilfonesi, Palatesi, Tavennesi ed Acquavivesi. L'8 settembre, all'una pomeridiana, Montenero fu piena di guardie che parte andarono a perquisire la casa di Ricci, e parte si schierarono per l'abitato. Vi furono numerosi arresti, compresi i Ricci ed altri istigatori. Le guardie tutte ripartirono la sera dopo rifocilllatesi con vino, pane e formaggio a spese dei galantuomini.

L'arrivo di Vittorio Emanuele - Il 20 ottobre 1860 si sottoscrisse l'atto di adesione al Regno di Vittorio Emanuele e alla Dittatura di Garibaldi. Don Paolo Paterno musicò l'inno di G. Carabba: "Esultiamo, o fratelli ecc.", che divenne popolare per averlo lui cantato parecchie volte anche a Guglionesi, a Termoli, a Ripalta. Nelle feste, nelle fiere, era un brillar continuo, sui petti e sui cappelli di ogni ordine di persone, di coccarde tricolori e di Croce Sabauda. Il poeta Antonio Javicola, studente, era sempre con chepì e scolla rossa alla garibaldina. Di queste scolle non c'era quasi persona che non le portasse. Tutto era garibaldino: vestiti da soldati garibaldini, pennacchi di penne di gallo o piuma nera, o penna, di gallo tricolorate ai cappelli.

Il 27 settembre 1860 Campobasso in allarme. I soldati borbonici di Caiazzo, ove furono decimati dai garibaldini, avevano invaso Piedimonte d'Alife, indi Cerreto, e si erano inoltrati fino al ponte di ferro di Solopaca. Si temeva che lo passassero e trascorressero fino a Campobasso. Si fece ordine a tutti i Comuni della Provincia di mandare a Campobasso un buon numero di guardie con fucili e munizioni. Si aspettava che si tagliasse il ponte di ferro per impedire il passo ai borbonici. I borbonici assalivano carrozze, muli e cavalli montati da persone in viaggio, inseguivano e uccidevano. Il telegrafo era in continua azione. Grande era il malcontento di tutto in contadiname, dei massari, ecc. per questa partenza. Quanti erano stati chiamati, tutti si erano rifiutati più o meno, ma specialmente i due guardaboschi comunali Di Pietro e Morrone, il quale ultimo con impertinenza e risentimento non volle ubbidire. Si era intanto risaputo che dal Circondario nessun contingente era partito, anzi che quello di Montecilfone era stato dal Sotto Governatore rimandato indietro con questo comando: "Avete i ladri in casa, andate a sterminar quelli". Così non partì neanche il contingente Montenerese.

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LE REAZIONI - PLEBISCITO - PIEMONTESI E GARIBALDINI NEL NAPOLITANO

Podromi di reazione - Non si erano mai opposti certi galantuomini. Ma i reazionari e gendarmi ausiliari, i soldati sbandati e la maggior parte dei massari non si davano pace: volevano venire in paese per imporsi ai galantuomini e vi era da temere una reazione, anzi una guerra civile. Erano infatti sul punto di muovere verso l'abitato, sulle ore 22, quando cominciarono a suonare le campane a festa. I reazionari, sospettando che quello scampanio fosse un segno di allarme, si ristettero dalla mossa. E invece quel suonare a festa era per la vittoria riportata dalle truppe di Garibaldi il primo ottobre su tutta la linea al Volturno contro i borbonici. Per quella vittoria veniva con telegramma ordinato che si cantasse l'inno Ambrosiano. Per tutto l'abitato girarono galantuomini, preti, artieri, il Corpo municipale ed altri, oltre alle guardie con la bandiera Sabauda, gridando: "Viva Vittorio! Viva Garibaldi! Viva l'Italia!". E le maggiori grida le facevano i ragazzi, che gettavano a gara i berretti ed i cappelli in aria e strillavano a più non posso. Così il complotto fu sventato. Il Sotto Governatore Bardari venne a Montenero il giorno dopo. Alla Casa Comunale si chiuse in una stanza col Capo Compagnia Sacchetti e con Don Bonamico Sozio. Molti furono gli arrestati. La notte, il Sotto Governatore volle andar cantando, e fra le altre si cantò da lui e dalle guardie ed altri di Larino questa canzone popolare: "Viva l'Italia costituita / Risorta al giubilo / Di nuova vita, ecc".

Le reazioni - Col prendere l'offensiva nella battaglia del primo; ottobre al Volturno Re Francesco si riprometteva di raggiungere due scopi: aprirsi il varco sino a Napoli sconfiggendo Garibaldi da quella banda e rivoltargli dietro gli Abruzzi con le reazioni: Il primo andò fallito ed il secondo in gran parte. I borbonici furono sconfitti su tutta la linea, ne furono fatti prigionieri 5 o 7 mila ed il resto ricacciato a Capua. Le reazioni si restrinsero ai paeselli del distretto di Vasto, a qualche altro del circondario di Lanciano e di Sulmona, Avezzano, Aquila, e Isernia, oltre Piedimonte d'alife. Per questi luoghi si ebbe la seconda reazione. Il 30 settembre scoppiò in Monteodorisio. Si alzò ivi la bandiera bianca dal contadiname, si riposero i quadri di Francesco e Maria Sofia al posto di Guardia, si cantò il Te Deum e si ripristinò il regime dispotico. Accorsero le Guardie Nazionali di Vasto, Atessa ed altri paesi con a capo il Sotto Governatore D. Decoroso Sigismondi di Bomba. I Monteodorisiani resistettero con fuoco di fucileria, sicchè fu forza rispondere, e di quei villani ne morirono ben 25 e molti ne rimasero feriti. A questo prezzo si potè ristabilire l'ordine. Prima di Monteodorisio, Dogliola aveva dato l'esempio, ma quivi non si ebbe spargimento di sangue. Gissi la imitò terza, ma con scellerraggini inaudite. Il 2 ottobre innalzarono la bandiera bianca, quando le Guardie erano di ritorno da Monteodorisio. Vittima ne fu D. Peppino Mariani, giovine di spiriti italianissimi. Fu preso, battuto a morte, seviziato e trascinato semivivo dal Giudice, il quale, richiesto che se ne dovesse fare, rispose alla plebaglia come Pilato, anzi peggio: "Fatene il piacer vostro". E gli efferati lo finirono a colpi di stile, l'appesero, l'abbruciarono cavandogli gl'intestini, perchè resistevano alla combustione. Si recarono quindi alla casa di D. Giustino Marisi, medico celebrato, e la saccheggiarono, chè lui s'era posto in salvo. Questa regione non potè subito essere domata. Restò impunita sino ai 13 o 14, e quindi il tristo esempio si propagò nei circostanti Comuni: Casacalenda, Carpineto, Guilmi, Roccaspinalveto, Furci, S. Buono, Liscia, Palmoli, Celenza, Tufillo, Fresa, Lentella, Fraine, Dogliola di nuovo. Nei quali paesucoli non vi nulla di simile a ciò che era avvenuto a Gissi, tranne a Liscia, ove ammazzarono il vecchio D. Giuseppe Lalli, che malato di podagra era a letto. Il 9 in questo distretto imitò il tristo esempio Ripalta - oggi Mafalda - il 10 S. Felice, l'11 Montemitro. A Ripalta, i cafoni - accordatisi alle piane del fiume ove erano a mietere il riso - tornarono la sera con bandiera bianca, e armati di accette, ronche, falci e qualche schioppo, obbligarono l'Arciprete a cantare il Te Deum e i galantuomini ad intervenirvi. Nel riuscire di Chiesa intimarono ai galantuomini di restare. Ne trassero fuori D. Antonio Castaldi, e avendolo fin dentro la Chiesa ferito, gli tirarono una fucilata al braccio, colpi di accetta al capo, che poi gli tagliarono facendone pasto ai cani. Dei figli di costui il terzogenito fu ferito mortalmente, il secondo gravemente. Gli altri galantuomini si salvarono con la fuga, saltando un muro della Chiesa che era in costruzione. Dalla casa di Adamantonio Casciati, che volevano incendiare, partirono delle fucilate e ne rimasero parecchi feriti, fra i quali il mugnaio, uno dei principali reazionari. A S. Felice, dopo cantato il Te Deum, Piccoli D. Giuseppe, il Cancelliere e D. Gabriele il medico, abbandonarono la casa per porsi in salvo, e subito vi si precipitarono gli assassini, ne forzarono le finestre, la depredarono fino alle pietre, ai mattoni; scassarono le botti, in due erano oltre 30 salme di vino, e infine la incendiarono (vi andò perduto anche l'Archivio Comunale). A Montemitro si voleva fare il medesimo, dopo il solito Te Deum che si cantò senza suonar le campane per non darne sentore ai Montefalconesi. Restò così la cosa sia per opera dei buoni che si opposero, sia per timore della forza che già era in movimento da Larino. A capo della reazione di S. Felice furono D. Pasquale Arciprete e D. Almerindo Simigliani supplente, i quali vollero vendicarsi delle battute date all'Arciprete da D. Buonangelo Piccoli. I Sanfeliciani ad istigazione dei due, che dicevano aver 15 giorni di carta bianca, si preparavano ad andar anche a Montemitro. Perciò i Piccoli, dopo aver vuotata la casa, l'avevano abbandonata e si erano andati a rifugiare, a Montefalcone, Achille e Buonangelo e Nicoletta, Gabriele e Giuseppe a Lucito. Massimino e D. Maria rimanevano a Montemitro ma non a casa. Vi furono là dei contadini che richiedevano a Piccoli Massimo i biglietti e gli strumenti di credito; altri che già correvano a rimettersi in possesso che della casa, chi della vigna. A S. Felice facevasi altrettanto. I ripaltesi avevano fatto sapere che sarebbero venuti in 300 a Montenero ad innalzare bandiera bianca. Il dì precedente, il 10, erano stati arrestati i soldati sbandati e scortati per Campobasso. Erano pure stati sorteggiati, fra quelli della Guardia più atti alle armi, due che andassero a comporre la colonna mobile di Campobasso, secondo gli ordini del Governatore D. Nicola de Luca. Giovanni Palma e Primiano Morrone erano i sorteggiati. Intanto si accordarono loro i cambi e il Palma fu sostituito da Fedele Eleuterio e il Morrone dal germano Giorgio, beccaio. Costoro con altre due guardie di scorta partirono con il Capo Compagnia D. Carminantonio Sacchetti e il nipote D. Federico. Quando furono presso Civita, i Civitesi che erano in apprensione per le sinistre notizie delle reazioni e in timore d'invasione, al vedere questi soldati e le guardie, gridarono all'armi, e si fecero loro incontro con animo di respingerli armata mano. Il Capocompagnia dovette avere i malanni suoi prima di giungere a farsi riconoscere. Pur essendo l'ora già avanzata e cattivo il tempo, tirarono oltre, ma dovettero retrocedere a Civita. La notte però i soldati, l'uno dopo l'altro, se la sgusciarono dal Corpo di Guardia dove erano alloggiati, e fra essi anche una delle guardie: Giorgio Morrone. Sicchè il Capocompagnia e gli altri dovettero ritornarsene l'indomani con grande scorno. I Ripaltesi avevano mandato segretissimo (se ne incolpò quel Cancelliere e il notaio Casciati, figlio e padre) che essi sarebbero venuti a innalzare la bandiera bianca qui, se questi contadini non si fossero a ciò risoluti. Di questi messi fu scoperto uno la mattina dell'11, giovedì, ma non fu possibile prenderlo. Perciò per tutto questo giorno si fu in armi, e la notte passò tra ripulire e racconciar gli schioppi e far palle e cartucce da parte dei galantuomini. La sera intanto s'ebbe avviso da Palata essersi già portata a Tavenna la colonna mobile di Montecilfone e diversi colà, come a punto di riunione, recare un buon numero di guardie qui, ed altri paesi prossimi. Partirono dunque, la mattina del 12, 24 guardie, tra cui 10 galantuomini, cioè D. Raffaele, D. Alessandro Iavicoli, D. Bonamico Sozio, D. Luigi ed Achille Gentile, D. Carminantonio Sacchetti, D. Aurelio e D. Federico, D. Giuseppe Barbieri, D. Paolo Paterno e D. Gaetano Carabba. Non appena giunsero a Tavenna partirono per Ripalta. Tutte le guardie erano già in riga: i Montecilfonesi, Larinesi, Tavennesi, Montefalconesi, ai quali s'aggregarono i Monteneresi. A metà della strada vennero a raggiungere la colonna degli Acquavivesi. Erano un 200. Giunti al poggio che sta ad oriente, quasi a livello di Ripalta, si fecero schierare le guardie in semicerchio ad una fila dicendo che ci sarebbe stata resistenza. Ma non tardò molto che si fece vedere l'Arciprete con un drappello di contadini con palme d'ulivo. E già prima dell'Arciprete era andato D. Federico Rodini. Il capitano di Montecilfone D. Eugenio Martino e l'Ispettore avevano ordinato che presentassero le armi, senza di che non sarebbero entrati da amici. Le armi furono presentate: erano una ventina di fucili non tutti buoni. Si entrò il fila doppia con ordine che la fila a dritta tenesse l'occhio alle finestre ed alle porte a manca e l'altra fila al contrario. Non vi fu nessun incidente e si girò per il paese cantando: Viva l'Italia costituita! La colonna, fermatasi in piazza, trovò al posto di Guardia la bandiera bianca: un fazzoletto in cima ad una mazza ricolma di bucastre. Vi erano anche i quadri di Francesco e di Sofia. Questi furono dal capitano della colonna di Ripabottoni fatti in pezzi e lacerati davanti al pubblico e la bandiera portata al Commissario. Poco dopo fu bandito che "chiunque avesse accetta, falci e ronche le andasse a presentare al Commissario, pena la fucilazione". Così si effettuò il disarmo. In questa giunse la Guardia di Palata (un 50 individui) e di Guglionesi. quindi fu bandito che "chiunque tenesse la casa chiusa e non l'aprisse sino alle ore 23 l'avrebbe avuta a sacco e fuoco". E cominciarono gli arresti. La mattina partirono alla volta di S. Felice 120 guardie. Si diressero alla rinfusa in doppia riga un buon tratto oltre l'abitato di Ripalta e poi alla rinfusa proseguirono sino a vallone di S. Felice tenendosi sempre verso l'alture, per Montelateglia. Al vallone si diceva che si sarebbe incontrata resistenza a S. Felice. Una staffetta fece sapere che il Sotto Governatore raggiungeva con altre guardie, più in là, la colonna. I Sanfeliciani si vedevano aggruppati intorno all'abitato. In due fila divisi a dieci a dieci si tirò innanzi con ordine per declivi e burroni e campi impervii sino a che non si venne su la strada che da Montefalcone mena a S. Felice, facendo un lungo giro a dritta di oltre tre miglia. Si erano avvicinati un buon paio di fucilate dall'abitato, quando apparve un prete in cotta, seguito da un buon numero di villani. Era l'Enconomo D. Levino Clissa. Entrarono senza tenere quasi alcun ordine. I galantuomini uscirono incontro al Sotto Governatore, D. Almerindo Simigliani per primo, e subito fu messo in arresto. Si ordinò che tutti si recassero in Chiesa per assistere al Te Deum. E tutti vi andarono. Allora, senza che fosse cantato il Te Deum, tutte le donne furono fatte uscire e gli uomini restare con le guardie a vista; sicchè oltre a 400 si trovarono arrestati. Dopo gli arresti il Sotto Governatore fece gridare dal serviente comunale il disarmo, e si cominciarono a raccogliere accette, falci ed altro. Poi fece bandire che chi avesse roba dei Piccoli la portasse alla casa di Zara; ma non si vide che qualche femminella portare un po' di lana di materassi, qualche po' di grano e delle doghe di botti, tavole scassate ed altri mobili rovinati, sicchè la mattina non vi era angolo dove non se ne vedessero. I Piccoli non riebbero di 300 tomoli di grano che una sessantina e di 50 tomoli di granone una quindicina, di due o tre cantaia d'olio poche caraffe, di mosto nulla; dei mobili qualche frammento, degli abiti e biancheria pochi avanzi lordi e lacerati, di 3 letti poche decine di lana e qualche lenzuolo. La sera seguente furono tolti dalla chiesa gli arrestati e, legati a due a due, condotti in 4 o 5 catene a casa dei Simigliani. Come passavano erano dalle guardie palatesi battuti con grossi bastoni senza pietà. La mattina fu, di esse, fatta la scelta. Schieratesi le guardie innanzi al portone di Simigliani e messisi il Sotto Governatore con D. Gennarino e Piccoli D. Gabriele da un lato, si facevano uscire i detenuti ad uno ad uno: quello che si reputava estraneo all'incendio si cacciava fra le grida di Viva Vittorio e Garibaldi, quello che si sapeva reo si rimandava indietro a colpi di frusta e di mazza. Terminato ciò, di tutti i colpevoli si fecero tre catene, e l'Arciprete e il supplente Simigliano, legati a capo di essi, difilarono tra le guardie idi Montecilfone e di Larino e Tavenna, e col Sotto Governatore e il suo seguito marciarono a Ripalta. Le guardie di Montecilfone si erano segnalate per ogni sorta di vandalismo e di violenza. A Ripalta parimente. Subito dopo, cantato il Te Deum, fecero bandire che uscissero fuori e tornassero alle loro terre tutti i forestieri. Quindi il vice Economo D. Erminio Boccardi dovette tornarsene in Castelluccio, il sarto Antonio Tucci con moglie e figli a Tavenna, il cancelliere sostituto Troiano con la famiglia dovette allontanarsi; e così molte famiglie agricole di Fossacesia, di Campobasso che vi si erano fissate. Un Atessano, Iannelli, che molti anni era stato di brigata a Montefalcone, ne aveva giorni prima percorsi i Comuni viciniori, come emissario borbonico, travestito da contadino zappatore, spargendo tra il contadiname idee avverse ai nuovi ordini, e aizzandoli a ribellarsi, come accadde. Fu arrestato in un pagliaio presso il lago di Montefalcone dai Montefalconesi, che lo scoprirono per caso. Un monello andò a comperare dei sigari a Montefalcone, di sera; domandato di chi erano non rispondeva a tono. Si entrò in sospetto; gli tennero dietro, e così Iannelli fu preso e di là portato al carcere di Montefalcone e poi quello di Palata ove ebbe la sua. Il 21 ottobre 1860, di mattina, D. Flaminio Monaco predicò, lungamente, e toccò della votazione, avvertendo il popolo che al suono della campana maggiore si adunasse sulla Portella, ove si dovevano raccogliere i voti. Il Sindaco, il Cancelliere, i Decurioni e i galantuomini furono i primi a raccogliersi sulla Portella sotto il lastrico del palazzo, ove si erano disposti tavolino e sedie. Il sole era un po' molesto e perciò si pensò meglio cambiar posto, e si andò innanzi il caffè del Genio (Cascettaro). Suonata la campana il popolo cominciò a riunirsi. Anche il bando si era mandato pel paese. Sul tavolino si posero due bacini, uno di rame a destra con le cartelle verdi del no, e l'altro a sinistra con le cartelle buie del sì. Le cartelle, a stampa, erano venute da Campobasso. Si cominciò dunque a votare in quest'ordine: prima il Sindaco col corpo municipale, indi il Clero, appresso gl'impiegati, ed in seguito i galantuomini e tutti gli altri. Il Cancelliere che sapeva quasi tutti i nomi dei chiamati a votare, gridava di tanto in tanto chiamando or questo or quello e, vedendo alcuni che non erano stati tesserati ne scriveva o faceva scrivere le tessere per consegnarle. Si ebbero oltre 200 voti pel sì, quando un tal Luigi d'Aulerio venne a porre la prima cartella del no all'urna, e quindi di tanto in tanto se ne videro delle altre fino a 34. Sicchè quelle del non giunsero che a 430. Fra i votanti vi furono alcuni forestieri. Essendo già suonato mezzogiorno, la Commissione si sciolse, ed in presenza di quanti erano ancora lì si suggellò l'urna con due fettucce in croce. Prima di dar principio alla votazione il Segretario al Decurionato, D. Raffaele Iavicoli, in presenza di tutti lesse ad alta voce il decreto che riguardava il comizio e due uffici del Sig. Governatore. Terminata la votazione si stese il verbale nel libro delle sedute. Lo firmarono tutti i decurioni tranne che due che si erano assentati e il Sindaco. Questi non lo firmò, perchè si oppose il genero D. Nicolino Iavicoli e il figlio Ciccio, i quali per astio contro D. Raffaele sostennero non essere dalla legge richiesto quel verbale. D. Carminantonio Sacchetti in qualità di Capo compagnia e D. Nicolino Iavicoli in qualità di persona di fiducia delegata dal Sindaco, partirono per Campobasso a portare l'urna dei voti. Il risultato del Plebiscito scrutinato il 3 venne comunicato per telegramma. Per il sì: 1.302,064; per il no: 10,312 nel continente; nella Sicilia per il si: 432.054; per il no: 667. Si ebbero in totale 1.734.430, no 10.979 per tutto il reame. Il motto del Plebiscito era: "Si vuole l'Italia una e indipendente con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti". D. Nicolangelo Sozio come Guardia d'Onore aveva avuto la chiamata a Campobasso per andare a Isernia incontro al Re Vittorio. A Isernia però non andò e solo una Deputazione di questo distretto, fra essi D. Peppino Ricciardi supplente di Palata, si recò a far omaggio al Re che non a Isernia, ma a Venafro potè vedere e parlargli. Il Re era di una familiarità rara in teste coronate. Non usava farsi baciare la mano, ma era lui che andava a stringerla. Fra le altre parole che pronunziò furono queste: "Dobbiamo andare alla Venezia e abbiamo bisogno di 500 mila soldati. Il Generale Scotti che comandava circa 6000 uomini quasi tutti del quinto di linea, compresi i gendarmi e qualche migliaio di contadini, veniva sconfitto. Da Isernia a Venafro si erano costoro attestati al Monte Macerone presso la strada rotabile, non lungi da Isernia, con l'intento di scendere in Agnone e di là nei paesi già reazionari degli Abruzzi, e forse a quelli del distretto di Vasto. Le truppe piemontesi che si dirigevano là si scontrarono con essi e in poche ore li dispersero. I prigionieri furono 852, tra i quali il Generale Scotti e 5 Ufficiali, e fu preso un parco di 10 cannoni. Così Cialdini liberava la regione dalla imminente strage e rapina e frenava le reazioni, e fu il primo scontro coi borbonici. Il brigantaggio in Calabria, in Basilicata, in Puglia, in Abruzzi ecc. fece stragi e danni considerevoli, nè si giungeva a disperderlo. Cola Morra nacque a Cerignola il 17 giugno 1827. Abbandonati gli studi, visse gli anni della sua gioventù facendo il guardiano di campo fra Cerignola e Foggia. Nel 1849 Cola esordì uccidendo in un duello rusticano, a colpi di baionetta, il guardiano Vincenzo Mazzono. Latitante dapprima, catturato poi, ebbe 35 anni di ferri e fu galeotto nei bagni di Nisida, compagno di catena di Settembrini e di Spaventa. Dopo 8 anni, stanco della vita di recluso, pensò fuggire. Messosi d'accordo con un barcaiuolo dell'isola, all'alba del 17 novembre 1847, eludendo la vigilanza delle sentinelle, evase e raggiunse la compangia tra Cerignola e Foggia. Riunitosi a Gabriele Robicchio, più volte omicida, condannato alla reclusione perpetua, e con lui stretto un patto di fratellanza percorsero insieme le campagne di Puglia e di Basilicata. Frequenti e sanguinosi furono gli scontri con la forza pubblica da cui i due banditi uscirono sempre illesi. La polizia borbonica, debole e inetta, non potendo catturare il Morra, sfogava la sua bile sui parenti e specialmente su la sorella del bandito di nome Loreta che veniva molestata con continue chiamate all'Intendenza di Foggia. Questa vita fortunosa durò fino al 1860, quando, in una grassazione in prossimità di Foggia, Cola Morra restò ferito a un braccio e poichè gli riusciva difficile curarsi e continuare la vita del brigante col braccio al collo, dovette separarsi dal fedele Robicchio costituendosi. Cola Morra fu condannato a 19 anni di ferri. Il primo ottobre scoppiò la reazione capeggiata dal Vescovo, i De Lellis ed il Duca di Pescolanciano. Il giorno 4, il Governatore di Campobasso si mosse per reprimerla con circa 900 Guardie Nazionali della Provincia e una piccola mano di Gendarmi. Dopo tre ore di fucilate Isernia si arrese; le Guardie potettero entrarvi e farvi degli arresti. Ciò avveniva dl 5 al 6 di ottobre, quando improvvisamente circa 2000 e più borbonici si videro avanzare dalla via di Venafro ed erano già non più che un miglio lontano. Le Guardie cominciarono a fuggire in disordine senza darsi un convegno, un luogo di ritirata... La maggior parte presero la volta degli Abruzzi e quasi tutti si salvarono, quantunque aggrediti dai villani che per quelle montagne erano ben in arma, e che non perdonavano a nessuno. Dei pochi che non furono lesti a fuggire, parte furono trucidati dalla contadinaglia, parte fatti prigionieri dalle truppe, che se loro risparmiarono la vita, non li lasciarono senza tormenti ed oltraggi vandalici. Di quelli che fuggirono tardi e verso la via di Campobasso quasi nessuno campò da morte. Alcuni però furono fatti prigionieri dai soldati. Fra le vittime si ricorda D. Giuseppe Suriani di Lupara figlio del Consigliere Provinciale, bel giovine biondo e di gigantesca statura. Sorpreso a cavallo mentre, da un precipizio impervio, si rimetteva per la strada rotabile, i contadini lo spacciarono e, spiccatagli la testa dal busto, la esposero con altri a Isernia. Fra i prigionieri Campobassani vi furono D. Antonio Allocati e D. Federico Bonucci. Questi con altri 50 furono portati a Capua e di là a Sessa. Da Sessa a Gaeta, incontratisi con Francesco, costui li fece di nuovo condurre a Sessa. Ivi affunnati tutti, erano già sul punto di essere fucilati, quando ad un tratto i soldati borbonici se la dettero a gambe e li lasciarono legati, sotto il cielo aperto, e stettero lì un giorno e una notte senza potersi muovere. Finalmente arrivavano i Garibaldini ed i Piemontesi che li sciolsero: erano quasi tutti morti dalla inedia e dalle sevizie. Il Re Vittorio li volle vedere, notò il nome di ciascuno e li gratificò di alcune monete d'oro, munendoli di foglio di via perchè avessero alloggio e spese fino al rientro nelle proprie case. Ciò avvenne il 25 ottobre quando Vittorio da Teano passò a Sessa con l'esercito. Il Governatore, due o tre giorni prima del 21, tornò a Campobasso da Casteldisangro per la volta di Agnone, ove fu repressa la reazione. Già i Piemontesi e i Garibaldini avevano occupato Sessa e Cialdini aveva avuto uno scontro coi Borboni. I Piemontesi non erano che 8000, 2000 i borbonici. Cialdini li aveva fatti interrogare se si volevano battere; si rispose che circa 10000 non volevano, ma questa era una gherminella. Difatti i diecimila comandati da Barbalonga, fingendo di sbandarsi, cercavano di circondare i Piemontesi e prenderli in mezzo. Ma Cialdini, avvedutosene a tempo, li affrontò tutti e li sgominò. Le vie deserte, le case chiuse. Non si aprivano ad anima viva. Le vie erano appestate da cadaveri semisepolti. Sotto il Ponte della Valle c'era un ginocchio di resti delle cartucce lacerate nel fuoco di fucileria del giorno innanzi. A Napoli giungevano intanto feriti senza numero e prigionieri. Una catena di prigionieri quasi tutti tedeschi era chiusa da uno che di tratto in tratto si cacciava la mano nel petto, come se vi celasse qualche arma. Fu perquisito, e gli trovarono addosso dita ed orecchie mozze, con anelli ed orecchini. In quei giorni a Napoli v'era un allarme e una costernazione grandissima. Pareva imminente una rivincita dei borbonici. I Garibaldini non avevano dove accorrere prima per ricacciarli, e già cominciavano a sbandarsi tanto era il loro abbattimento, finchè non si seppe che erano riusciti finalmente superiori. A S. Maria di Capua i borbonici erano entrati fin nelle strade più interne che agli sbocchi erano barricate con somma cautela. Ma una di esse da 3000 borbonici stava già per essere sormontata, difesa com'era da soli 40 garibaldini e Garibaldi stesso. Ma fortuna volle, se non fu, come fu, preveggenza e provvidenza, che circa 300 calabresi accorsero e i 3000 furono tutti disfatti. Nella lotta alla barricata di S. Maria ci fu un momento che Garibaldi, vedendo il pericolo, gridò: "Tiratemi, fratelli, ch'io non cada nelle unghie di codesti birri". Capua capitolava il 2 con la resa di 10 mila uomini con armi e munizioni e rendendo gli onori militari, sino a Porta Napoli, al Generale La Rocca. Il 6 i Piemontesi avevano già occupata la linea al di là del Garigliano e il Re era al campo di Sessa.

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FATTI E FIGURE NOTEVOLI NEL 1861 - REAZIONI E BRIGANTAGGIO

D. Giovanni Gentile di D. Domenico tornò il 5 gennaio 1861 dallo Stato Romano, ove erasi rifugiato con le altre truppe borboniche, di cui faceva parte come caporale di artiglieria. Egli raccontava: a Terracina scesero prima i Borbonici (16000) e non vollero arrendersi a De Sannez Piemontese, ma ai Francesi, nelle mani del cui generale deposero le armi, 40 cannoni, munizioni e fucili, tutte a Castel Sant'Angelo depositate. Cavalli ed uomini morivano di fame: venduti i cavalli per pochi scudi l'uno; i soldati avevano dai Francesi un'oncia di riso e un rotolo o meno di pane per ciascuno, ciò per alcuni giorni finchè non cominciarono ad essere rimandati alle loro case. Molti però avevano disertato al primo toccare del suolo dello Stato. I principali quartieri di borbonici erano a Velletri e a Roma. A Velletri stava il Gentile, e a Roma non andò che per condurvi l'artiglieria. I soldati borbonici erano odiati e per farsi trattare dovevano dar segni di avversare la causa borbonica. Un altro soldato tornò da Gaeta, un tale Toscano nativo del Teramano. Uscì da Gaeta il 26 alla volta di Terracina con altri 3000, licenziati da Francesco. A Terracina giunsero sfiniti dal mal di mare; furono complimentati dal Comandante Francese di caffè e sigari e ripartirono per le loro case. A Isernia non giunsero che pochi; se ne erano scompagnati quasi tutti, e alloggiarono in quartieri presso i Piemontesi, i quali li fecero dormire nei loro paglioni e li complimentarono di latte e caffè e sigari. Li appellavano "fratelli". La sera del 15 dicembre si facevano retate di soldati sbandati. Furono presi: un Gissano, un Guilmese, un Palmolese, un Casacandilese, un Vastese, non appartenenti alla quota di questo Comune tranne un tal Rago di Roccavivara. I paesani non si fecero cogliere, perchè, forse, avvertiti. Il Vastese, genero di Michele Argentieri, era fuggito pei tetti e, nascosto dentro la rocca del camino della casa già di D. Zenone di Pietro e di D. Nicolangelo Sozio, ne fu snidato da un muratore che era stato mandato innanzi a esplorare. La Guardia Nazionale di San Salvo sorprese alla Bufalara tre briganti mascherati Sansalvesi: quelli che rubarono i ducati 133 a Tommaso Martella di Montenero. Ogni notte da 10 a 12 guardie, galantuomini quasi tutti, perlustravano queste campagne, più che altro per dare un certo timore ai ladri. E qui pur si udivano degli evviva a Francesco. D. Marco di Pietro, passando davanti alla casa di Luciani, l'udì gridare da fanciulli che erano dentro il portone dei d'Amore, alias Pittilazzo, e forse ne erano imbeccati dalle loro madri. V'era da qualche mese una considerevole immigrazione di montagnoli abruzzesi e della provincia, reazionari e compromessi. L'orizzonte politico, in questa parte d'Italia, sembrava intorbidirsi. Il giornalismo strillava in maniera da mettere in allarme il governo e far sogghignare gli speranzisti, nemici della Patria.
Alla masseria di D. Teresina Massangioli al fiume, da 8 a 10 briganti, andarono più volte a chiedere vitto e alloggio. Andavano armati, pel bosco, e lungo la spiaggia, e facevano frequenti sortite. Briganti in gran massa e in piccole bande si aggiravano per l'Abruzzo, ed assaltavano anche dei paesi, come Orsogna, Lanciano e Vasto. Nelle Puglie, messe di migliaia di versure incendiate, persone mutilate orrendamente, ricatti enormi, campagne abbandonate alle dilapidazioni dei servi, fughe, saccheggi, anarchia, governi provvisori. Il 27 e 31 agosto 1861 il figlio del Generale Scotti, tenente del 36°, con alcune guardie mobilitate circondava il bosco di Petrella. Il 1" settembre 1861 conduceva, arrestato mentre tornava dal bosco, un tal Galante Domenico di Palata, ladro famigerato che la sera stessa fu a Palata fucilato. Il 4 settembre 1861 una buon'ora innanzi 1' alba, circa una cinquantina di Guardie andarono a circondare il bosco Caracciolo tra Montepeloso ed il Molino mentre da Ripalta veniva perlustrando il bosco il Luogotenente Scotti con le Guardie mobilitate. I Monteneresi salirono di là alle Morgie: si fermarono alla masseria di Palombo (/o stagnariello) e tornarono sul mezzogiorno a suon di tamburo ed a bandiera spiegata con un povero bracciante di Montefalcone, trovato sprovvisto di carta di sicurezza. La guardia mobilitata, con berretto rosso, era composta di volontari e forzosi, del contingente delle G. N. del Circondario o Distretto. Il giorno 11 ottobre D. Raffaele laviceli Luogotenente, D. Aurelio Sacchetti, D. Paolo Paterno, D. Raffaele Gentile, D. Gaetano Carabba, Federico Sacchi, Decoroso Gentile, Vitangelo laviceli, Battista Carugno, Michele Di Bello, Pasquale Sacchetti, Marcelle di Stefano ed Angelo Michele Maiale, andarono a perlustrare la campagna allo scopo di salvaguardare i reduci della fiera di Larino. Di 20 che erano stati invitati dal Luogotenente se ne riunirono appena 12. A mezzogiorno partirono percorrendo la stradella di Cannevieri. Si fermarono un poco al casino di Suriani, che stavano vendemmiando, e di là passarono alla masseria di Michele d'Amore, alias Pittilazzo. Non vi trovarono nessuno: le porte erano chiuse e si andò cercando la chiave per aprirle e, rinvenutala sotto un truogolo, entrarono a bere dell'acqua fresca. Delle penne di pollo di fresco spennati e piedi tagliati sparsi qua e là fuori la masseria e dentro alcuni agnelli che facevano rumore ruzzando, fecero le Guardie curiose di aprire la masseria. Ma stando fermi alcuni della Guardia vedevano or una or un'altra persona sul Montepeloso affacciarsi e farsi indietro di tratto in tratto, come fosse una sentinella. Sospettarono che là vi fossero dei briganti, scesero rasentando e percorrendo il vallone di Cannevieri fino al di là del luogo ove si riunisce quello di Caracciolo, finché non giunsero in direzione di Montepeloso. Là si divisero in due gruppi: Federico Sacchi, Maiale, Di Stefano, Decoroso, Gentile e Vitangelo laviceli presero la costa a sud dirimpetto la masseria del terribile (Angelomichele di Fabio) per aggirare da quella parte il monte; i due Sacchetti, Paterno, di Bello, Raffaele Gentile, laviceli, Carugno, Carabba, scesero lungo il vallone per la pianura che mena al molino e per la frana del monte ad ovest coll'intento di aggirare la posizione e portarsi alle Morge del fiume. Gentile D. Raffaele corse avanti, verso il molino, seguito da Di Bello e Carugno, per raggiungere una donna che scendeva dal monte e s'internava pel greto del vallone. Carabba, Paterno e D. Raffaele laviceli e D. Aurelio Sacchetti rimasero più indietro: quando si udì un colpo, poi un secondo ed un terzo su pel monte, si avvistarono i briganti. D. Raffaele Gentile gridava di salire per le frane del colle e i briganti fuggirono verso il fiume. Allora prima D. Raffaele, poi D. Aurelio Sacchetti ed infine D. Raffaele laviceli tirarono un colpo per ciascuno a terrore. Ma poiché i briganti sembrarono fermarsi pronti a retrocedere, si cominciò a fingere di chiamare la forza: Avanti! gridavano: Avanti! I briganti quindi valicarono in fretta il fiume e difilato presero il bosco. In questo mentre Federico Sacchi scendeva il clivo con un brigante legato e dietro tenevagli Decoroso Gentile. Dissero che un altro era fuggito scalzo e che non si era potuto allontanare di molto. Si davano perciò alcune delle Guardie a cercarlo lungo il torrente poco di qua dall'imboccatura e finalmente fu rinvenuto appiattato dentro un cespuglio e tremante: era uno sbandato, Carminantonio Bacciatti di Guilmi, ed era armato di ronca e di un grosso coltellaccio. Si seppe allora che su Montepeloso v'erano dieci briganti col capo Gaetano Prezioso, ex sergente borbonico di Ripalta, che là stavano da poche ore, ed alcuni s'erano addormentati, mentre altri stavano di guardia. Quando si videro all'improvviso alle spalle Federico Sacchi che sparando un colpo gridava: Avanti la colonna! si diedero alla fuga. Sacchi raggiunse il Parasole, lo prese e lo legò sparando subito altri due colpi verso gli altri fuggenti. Furono fucilati pochi giorni dopo.   Nel 1861 una fortissima colonna di sbandati borbonici capitanati da un Sottufficiale che si firmava Generale Farano infestava la provincia prendendo d'assalto paeselli inermi e facendo proseliti. Il 12 luglio 1861 per tempo arrivava con quattordici soldati il Capitano Giuseppe Volpi da Vasto, e partì per Montelcilfone accompagnato da alcune Guardie di qui, D. Raffaele laviceli, D. Carminantonio e D. Federico Sacchetti, D. Nicolangelo e D. Bonamico Sozio e D. Giovanni Gentile. I soldati furono accolti a fucilate e respinti: lasciarono due morti e tornarono qui in disordine. Il 13 giunse altra forza da Vasto. I briganti da Montecilfone scrivevano, a nome del loro Capo F. S. Parano, al Capo della Guardia Nazionale: "Coglioni, o domani prima di mezzogiorno mi farete trovare alle Sinarche 12 muli carichi di viveri o dopodimani sarò alle Porte di Montenero che metterò a ferro e fuoco. Guai a voi e le vostre famiglie!". Lo stesso scrivevano a Palata, Tavenna, Acquaviva. Altra lettera piena d'insulti scrisse Parano al Capitano della truppa. Il 14 luglio 1861, sul mezzogiorno, i briganti si affacciarono al Capo la Serra e al Colle Femminella con bandiere bianche seguite da una banda di armati e d'inermi. Si avvicinarono fin sopra il Vallone, allo Sterparone fin presso al Colle di S. Antonio; incendiarono tre biche di D. Nicola Maria laviceli e il lino di D. Raffaele laviceli, tirarono varie fucilate, uccisero 4 o 5 buoi dello stesso D. Nicola Maria. Il Capitano Volpi però tenne fronte con la sua valorosa compagnia di Piemontesi e con le poche Guardie Nazionali facendo Quartiere Generale alla Cappella di Bisaccia. Gli sbandati, superiori di gran lunga al manipolo di difensori, stavano per sopraffarli quando il Sacchetti ricorre ad un piccolo stratagemma: fece mettere in fila uomini e donne, quanti ne potè raccogliere sul piano della Pretella, e messi in testa alla colonna due tamburi che servivano per le feste del paese fece credere agli assalitori che giungesse un rinforzo da Vasto. Questa semplice astuzia ebbe pieno effetto e gli sbandati verso mezzogiorno si ritirarono. Due giorni dopo il Capitano Volpi con i suoi uomini ed il Sacchetti con la Guardia Nazionale partirono per Montecilfone per infliggere a questo paese ribelle la meritata punizione; ma non vi riuscirono perché pochi di numero e per la posizione dominante di Montecilfone. In questa circostanza il Capitano Volpi perdette un Sottufficiale. Indignato per lo scacco subito e per la perdita del Sottufficiale spedì la sera stessa dei soldati a Pescara a prelevare da quel forte due cannoni. Appena li ebbe, rinnovò la spedizione che questa volta ebbe pieno effetto, e Montecilfone subì un saccheggio di quattro ore durante il quale furono spogliate di ogni cosa le famiglie più cospicue. I cannoni furono maneggiati dal soldato D. Raffaele Gentile di Montenero. Il Capitano Volpi fece fucilare 17 briganti e poi altri 34 o 36 briganti dei più ribaldi, quasi a furore di popolo, indi il prete D. Lodovico Parano e 5 della famiglia Forcione, padre e figli. Il Capitano fece rinvenire i cadaveri dei due soldati uccisi il 12 e li fece seppellire nelle fosse dei preti, dopo aver reso gli onori funebri agli infelici. I due soldati erano Anselmo Maggi da Crema, volontario da 10 mesi, e l'altro Vincenzo Zannotti torinese, di nobile famiglia, figlio di Cavaliere, Sergente furiere. Era vedovo, e aveva fatto le campagne d'Italia del '59. Di costui non si rinvennero che le ossa e dei capelli. A Tavenna i briganti pranzarono in casa di Angelucci: bruciarono e saccheggiarono le case di D. Ascanio Zara e del fu D. Nicola Suriani. Il giorno innanzi furono a Palata e vi fecero il disarmo. Altri andarono a Ripalta e ad Acquaviva dove furono respinti, e vi lasciarono tre morti. A Castelluccio, oggi Castelmauro, furono accolti dalla plebaglia; uccisero il caffettiere. Vi fecero ricatti; uccisero il nipote di D. Ciccio de Benedictis; D. Benedetto, a stento campò la vita. A Montefalcone furono pure accolti il 16, il 18 a Roccavivara. Le truppe arrivarono. Partì il 17 nella notte il Tenente Fontana con 20 soldati per Ripalta; ne vennero respinti; si ammazzò un soldato che fu preso e ucciso dai Ripaltesi. Il giorno dopo i soldati, circa 50, partirono per Montefalcone con 6 o 7 Guardie col Capitano Pastore. Il 18 luglio 1861 Tommaso di Santo, Pantalone, veniva qui fucilato, altri due a Tavenna. Ripalta, oggi Mafalda, venne presa da 25 soldati del 36° di linea, altri 25 vi furono spediti da qui la sera, dove i borbonici avevano tagliata la testa col falcione al sindaco liberale Castaldi e giocatevi a palla per le vie del paese. In questa occasione il Capitano Volpi diede tre ore di sacco al paese. La mattina su 1' alba i briganti tentarono di entrare in Ripalta; ne furono fugati. Due Tavennesi briganti furono fucilati a Montenero. I capi briganti Farano e Fioriti padre e figli furono arrestati. Altre fucilazioni a Montecilfone. L'arciprete e il Sindaco di Tavenna vennero arrestati. Truppe a Castelluccio provenienti da Larino. Quattro fucilati al Calvario di Montenero. L'Arciprete di Ripalta, Spalvieri, e il Notare D. Isidoro Casciati furono condotti qui in arresto. Il 23 luglio 1861 a sera si portò sulla via nuova presso il Calvario a fucilare un tale di qui Giuseppe luliani, soprannominato MarchilieIIo e Coccia-rossa, giovane di 20 anni, di pelo rosso, ricciuto; ma fuggì via, e, ad una scarica di sei o sette soldati che l'inseguivano, restò colpito solo al braccio destro. Un telegramma annunziava un ordine del Generale Cialdini di lasciar la vita a tutti i briganti che si presentavano e di promettere larga indulgenza ai colpevoli. Quest'ordine produsse sensazione. Coccia-rossa così la scampò. Si procedette al disarmo di tutti, eccetto dei galantuomini. Il Capitano Volpi ordinò la ricomposizione della Guardia in numero di cinquanta non oltre, si iscrissero invece 120. In Montenero vi fu di stanza una compagnia di soldati per due anni. La truppa veniva provveduta di acqua e legna per turno dai galantuomini. Tra i militari vi era: il caporale Besani Carlo, lombardo, di Clusone, giovine di circa 26 anni, arruolatesi di fresco, già impiegato sotto l'Austria, e propriamente Giudice così detto ascoltante, in una città dell'Austria, e conosceva bene il tedesco; il caporale foriere, sig. Negrelli Emilio Aristide Annibale, padovano, ingegnere, giovine di 30 anni, nipote del Cavaliere Negrelli, ingegnere che collaborò al progetto per il taglio dell'istmo di Suez. Molti furono i soldati malati e si dovette approntare un Ospedale al Palazzo, nel quartino del Ricci, abbattendo le porte e riducendo in due stanze tutta la roba e poi si dovette aprire un'altra stanza per ampliare il locale. II 19 agosto 1861 tutti  ufficiali e soldati  furono richiamati e partirono alla volta di Guardiagrele per reprimere il brigantaggio in Sulmona e vicinanze. A Pontelandolfo fu battuto il brigantaggio e il paese cannoneggiato. Lo stesso a Casalduni, a Ponte, a S. Lupo, a Campochiaro. Nel 1861 vi fu una petizione per l'imprigionamento e l'allontanamento dei Ricci su pretesto che questi tenevano assoldate 200 persone per una imminente reazione. Il 10 luglio 1861 fu perquisita la casa di Carmela Borrelli, amante di Ricci D. Quirino; e quindi alla casa di costui con scasso del portone. Il giorno dopo Don Quirino è arrestato. D. Quirino Ricci, Capo Urbano, era uomo intelligente e fu fedele fino al sacrificio alla causa borbonica. Aveva in paese autorità e prestigio. Venne liquidato in modo inumano dagli altri galantuomini passati al nuovo regime. D. Peppino Ricci aveva posto sul balconcino della casa-ex palazzo ducale che abitava questi versi: " Questa mia casa in - fitto non vi da, Ne contratto di vendita io fa: Per uso proprio essa, è fin Dio vorrà: Ecco per or come pensar io so". L'indomani si ebbe un cartello di risposta pieno di insulti. Il Capitano Volpi lo fece sfrattare da Montenero con l'intimazione, nel termine di 24 ore: O a Napoli o a Larino o alle croci! Partì il 29 alla volta di Larino con la moglie e la figlia vendendo la lana dei materassi per avere di che fornirsi pel viaggio. In Tavenna, il dì 13 luglio 1861, giunse a cavallo Domenico Desiderio con lettera circolare così concepita: "Ai signori Capitani della Guardia Nazionale di Palata, Tavenna e Montenero: Signore, se fra due ore Ella non m'invierà tutte le armi, munizioni e sbandati che si trovano in codesto paese, io sarò sopra Tavenna colla mia colonna e farò man bassa". firmato: il Capo Compagnia - F. S. parano. Alla vista del corriere si videro in piazza i latitanti per furti, i facinorosi ed i sospetti politici. Verso il mezzogiorno comparve Vincenzo Picciotti con pochi albanesi e, fatta requisizione di armi, arruolata buona quantità di gente, si ricondusse in Montecilfone. Il 14 luglio la comitiva dei briganti di Montecilfone fatta più forte di nuovo assalì il Comune di Tavenna per saccheggiare col pretesto politico le case dei possidenti: fra gli altri si distingueva Angelo Michele Morrone, soldato borbonico destituito da guardabosco comunale, e scacciato da Montenero con altri tre, i quali si facevano seguire da una vettura da trasporto. Il Morrone vede Gennaro Maroscia con una chiave in mano, e supponendo che fosse quella della casa dei signori Suriani spiana contro di lui il fucile dicendo: "Sangue della Madonna, anche tu hai detto Viva Vittorio Emanuele!" e intimava che gli fosse aperta quella casa; ma, additategli il garzone dei signori Suriani che aveva la vera chiave, vi s'introdussero quei ladri e rubarono quanto vi era di biancheria e commestibili; incendiarono i libri ed i mobili; ruppero cristalli, porcellane, orologi, rame e quanto altro vi era. Si distinsero Maroscia, La Melza, Cianfagna, Bucci, Picciotti, Giorgio del Grosso, il quale cospirava dal 1860 con altri molti; e molti di quei ladri, smesse le loro luride vesti, indossarono gli abiti dei giovani Suriani. Giuseppe di Primio, soprannominato il boia, Luigi d'Aloisio e Filippo Zaccardi, fuggiti dalle carceri, si associarono a quegli assassini; assalirono la casa di D. Ascanio Zara e la posero a ruba e fuoco. In seguito Pietro Maroscia entra nella casa di D. Samuele Donadio per ammazzarlo; non trovatelo voleva legar la moglie e trascinarla per la piazza: e allo scopo Valentino di Lena e Giuseppe di Primio cercavano funi per tutto il paese. La misera, per salvarsi, dovette prendere a prestito danaro, fucili e cartucce e, per compimento, dovette loro imbandire un lauto pranzo nella farmacia. Nella casa di Muretta, dopo aver dato puntonate al settuagenario Nicola in ginocchio, volevano il nipote D. Francesco per farlo a pezzi; ma convinti che non vi era, si tennero più soddisfatti con ducati 200, non senza giurare che l'avrebbero ucciso dovunque l'avessero trovato. Infine devastarono la casa e la farmacia; rubarono quanto vi era dì meglio, e trovato un kepi nazionale, con feroci grida di viva Francesco II, Io fecero a pezzi. La turba reazionaria, lasciata poca gente in Montecilfone, voleva occupare Acquaviva, per metterla a sacco ma, trovata resistenza, si rivolse a Castelluccio Acquaborrana. Ivi era sicura di essere bene accetta, come fu, perché precedentemente vi si era recato il prete Ludovico Farano, il quale aveva tutto predisposto. Infatti ebbero ogni sorta di buoni trattamenti, ma non tralasciarono di far requisizione di moneta, viveri, armi e munizioni. Non contenti delle somme ricevute dai galantuomini, li costrinsero a sborsare altre somme, pena la fucilazione. Fra gli altri, D. Benedetto de Benedictis s'inginocchiò ai piedi di Farano, ed a stento campò la vita. Di qui passarono a Montefalcone, dove ebbero denaro dalla famiglia Ruberto, e così in S. Felice, dalla famiglia Zara. Dopo tali scorrerie la turba voleva rientrare in Montecilfone, sede principale della bieca insurrezione; ma avvertita che la Guardia Nazionale e la truppa regolare uscita da Montenero voleva aggirarla per prenderla alle spalle, si tenne in campagna. L'ora della giustizia era però sonata. In due scontri quei ribaldi, lasciati pochi uccisi e feriti, fuggirono nei dintorni, e così fu ridonata la pace e la tranquillità a quei paesi sventurati. Taluni dei più feroci furono passati per le armi, molti furono latitanti, altri furono imprigionati e rimessi al potere giudiziario per attentato contro la forma del Governo, per devastazione, strage, saccheggio in più Comuni dello Stato, con bande armate a tali scopi, dal giorno 8 al giorno 17 luglio 1861 nei Comuni di Montecilfone, Montenero, Palata, Guglionesi, Tavenna, Acquaviva, Castelluccio e Montefalcone.

I primi deputati II 7 aprile 1861 gli elettori in numero di 65 furono a Palata al Collegio elettorale, dei quali 25 palatesi, 21 monteneresi, 19 acquavivesi e 6 tavennesi. Don Marcello Pepe ebbe 30 voti, altri Cannavina. Il 14 aprile di nuovo a Palata per l'elezione dei Deputati. Ballottaggio tra Don Giuseppe De Martino di Napoli, chirurgo e Don Marcello Pepe di Civita. 71 votanti: 49 per Pepe, 22 per De Martino. Risultò deputato il De Martino con 184 voti contro 152 per Pepe.

Voci sediziose Si dicevano avvelenate le particele che dovevano distribuirsi ai contadini alla Comunione di Giovedì Santo e di Pasqua. Era pericoloso andare alla predica dei galantuomini. I contadini poco la frequentavano. Correva voce che un tale era andato a Napoli a portar l'oro dei Santi. Ai primi del mese di marzo 1861 una decina di contadini armati di scuri si recarono nottetempo dal sacrestano, l'obbligarono ad aprire la Chiesa. Entrarono, e difilato alla Cappella di S. Matteo. Credevano che la statua d'argento di S. Matteo fosse stata rapita. Propalatore delle voci era D. Florindo Alessandrini, il quale diceva che acquisterebbe cento anni d'indulgenza chi tagliasse la testa all'autore del furto e che è erano due mesi di libertà in cui i contadini potevano fare tutto impunemente. Il 20 aprile 1861 si alzava voce che non si vendeva più sale o si vendeva a 12 carlini il rotolo, quindi un affollarsi di gente nei botteghini a comprarne. Mene di reazionari. Mene di maligni. Anche oggi non mancano dicerie in certe circostanze... Il 2 maggio 1861 il becchino violò le fosse spogliando i morti. Gli furono trovati diversi abiti dietro perquisizione in casa. Nessuna meraviglia: lo facevano in quei giorni anche i papalini. Il 13 luglio 1861 i Montefalconesi fuggirono perché vari Palatesi gli fecero credere, come credevano forse pur essi, che un esercito tedesco era sbarcato a Vasto e in Puglia, che Bosco era già a S. Martino col treno, che i briganti di Montecilfone erano l'avanguardia. I Piccoli perciò presero la volta di Liscia, ove si rifugiarono, mentre il 15 e il 16 i briganti andarono in Montemitro, e, legata la loro madre, la volevano fucilare. D. Massimino che era ivi rimasto, a stento potè ruggire, siccome era di notte, quasi in camicia, sicché tra la fame ed il disagio cadde poi gravemente malato. Capo della banda di Ripalta che andò in Montemitro e Montefalcone ed altrove era Gaetano Preziosi. I contadini erano certi della venuta dei tedeschi. Eccone una prova. Un distaccamento del 36 di linea, che poi era venuto a Montefalcone, e s'era sparso pei dintorni, tornava da Montemitro a Montefalcone, quando a mezzo della strada s'udì una voce gridare: "Viva Francesco!". Il dott. Gabriele Piccoli che andava coi soldati, l'avvertì ma non disse nulla per non destar la confusione, nel dubbio che non bene avesse udito. Il grido però si ripeteva, sicché quello che guidava la colonna, l'avvertì anch'egli, perciò ordinò l'alt e fece rispondere con lo stesso grido. Ed ecco avanzarsi un contadino con quel grido, e salutare la truppa come bavarese. Il capo lo fece avanzare, l'interrogò, lo fece gridare di nuovo e a quel grido rispondere con una scarica da cui rimase steso al suolo. Era un contadino di Tufillo — un ladro o brigante — dei peggiori. A Montenero il 2 aprile 1861, uscendo alcuni zappatori dalla casa di Michelangelo Panunto, uno di essi "la Miichella", gridò: Viva Franciusco! Alessandro Morrone, che era di guardia, trovandosi là a passare per tornare a casa, gli si fece avanti con lo stile e vennero alle mani, ma il Morrone, vistosi sopraffatto poiché erano sopraggiunti i compagni della "Miichella", corse per altra forza, sicché la Miichella fu arrestato e, condotto al quartiere, ebbe tante mazzate da morirne. Il Vicario Generale D. Domenico De Angelis, di Limosano, il quale stava a Termoli e teneva le funzioni del Vescovo che a settembre tornava al suo paese nativo Cerignola, ricusò di cantare il Tè Deum nel giorno natalizio del Rè e quando si festeggiò la resa di Gaeta. I Termolesi perciò gli fecero sapere che se ne andasse via. Termoli era divisa in due partiti: uno gli accordava otto giorni di tempo chiesto dal Vicario, l'altro si opponeva. La reazione risollevava il capo (marzo 1861). I contadini si attruppavano ogni notte armati, e i briganti nei vicini boschi formicolavano, e venivano ed andavano dalla Puglia. Per l'indulto elargito da S. A. R. Eugenio furono lasciati in libertà oltre 100 Iserniani. Tornati in Isernia di nuovo avevano innalzato il grido: Viva Francesco! Morte a Vittorio Emanuele! Ne affissarono anche dei cartelli stampati. Furono arrestati quasi tutti di nuovo (marzo 1861). Altra voce della venuta dei Tedeschi e del ritorno di Francesco alla testa di essi, e che gli Austriaci sarebbero sbarcati a Manfredonia. Vi fu gran fermento. Il Benedetti diceva: "Leviamolo dal novero dei paesi italiani il Regno di sotto. Esso è la feccia, il deposito d'Italia ". Il 1° aprile 1861 a Castiglione Messer Marino dai soldati sbandati si operò una tremenda reazione, nella quale furono uccisi da 6 a 8 galantuomini. Il giorno di Pasqua, in Chiesa, un ufficiale della Guardia Nazionale chiese a uno dei soldati tornati che gli raccogliesse il kepi che gli era caduto: il soldato non volle più repliche che l'altro gli facesse, anzi rispose bruscamente: Chi sei tu che hai a comandarmi? Allora l'Ufficiale gli tirò uno schiaffo. Il lunedì il soldato che apparteneva a una numerosa famiglia, si concertò con altri, e tutti insieme aggredirono l'Ufficiale, e l'ammazzarono. Ne paghi, ne soppressero altri: il Giudice De Giorgio a cui tagliarono le mani, D. Raffaele Magnacca e il figlio. Ci vollero, per arrestarli e punirli, oltre 200 carabinieri ed altrettante Guardie Nazionali. Nella reazione venne implicato anche qualche galantuomo. Furono fucilati 23 Castiglionesi. A Portici, repressa la reazione con arresti di 20 e più tra feriti e secolari. A Somma, alzata bandiera bianca. A Foggia, ammazzato il Capo Nazionale. A Napoli. — " Al trambusto di ieri nella processione, scrive Ambrogio Carabba in una sua lettera, mi trovai io pure, n'ebbi timore come gli altri astanti. Il Sacramento col Vescovo che lo portava si ficcò in un portone di un palazzo; un Maggiore della Guardia Nazionale scese da cavallo e fuggì con altri 15 circa dei subordinati per la paura! Intanto per l'arresto di due delinquenti e per la bravura di un Garibaldino che spaccò la faccia a colui che aveva gridato Viva Francesco II tutte le signorine e i signori che gremivano i balconi di Toledo, spettatori del fatto, proruppero in una replicata salva di battimani, che propagata per la strada, dava ad essa sembianza di sterminato teatro, e ciò fecero per dar coraggio alle guardie e avvilire i reazionari che dovevano stare tra la folla immensa". Nei giorni di aprile la reazione estese il suo campo d'azione: una linea dai confini del Leccese alla Basilicata e via sino ai Principati, lungo la quale da oltre a dodici e più paesi e città invasi da bande borboniche di sbandati e paesani alzarono bandiera bianca. A Melfi, fra l'altro, si formò un governo provvisorio, che durò qualche giorno. Ci fu una carneficina di briganti. Di nuovo a Napoli dimostrazioni, 25 e 26 aprile 1861, contro Spaventa, che volevano gettare dalla finestra se fosse stato trovato in casa o al Ministero: si era sdegnati contro di lui pel suo Cavurrismo. Un'ordinanza con cui si proibiva alla Guardia Nazionale d'indossare la divisa quando non si era di servizio, eccitò la dimostrazione, la quale per poco non cagionò un conflitto tra la Guardia e le truppe. Il 4 dicembre, a Sora 400 villani capitanati da un tal Chiavone guardaboschi costrinsero quel Sotto Governatore a ritirarsi ad Atina dopo 3 o 4 ore di fuoco sostenuto da 70 Guardie Nazionali. Così la plebaglia rimase padrona della città. A Penne, altra reazione sedata, il 4, da truppe e Guardie Nazionali. A Caserta, tra voci di " Evviva Francesco! ", fu dai contadini ammazzato un garibaldino. La sera si dettero le tessere da distribuire agli elettori per essere riconosciuti come tali dalla Giunta Elettorale di Palata. Il 28 gennaio circa le ore 15 partirono per Palata una trentina tra galantuomini e massari: erano di Palata 31, di Acquaviva 21 e 21 di Tavenna. Gli elettori assommavano a 117, e presenti votanti non furono che 82. Mancanti 85. Ad unanimità si elesse D. Liborio Romano, consigliere di Luogotenenza incaricato del dicastero dell'interno. A Palata si dovevano riunire tutti gli elettori dei circondari di qua dal Biferno, cioè di Termoli, di Guglionesi, di Civitacampomarano, di Montefalcone e di Palata, per l'elezione del deputato; ma le ultime disposizioni furono che in ciascun capoluogo di circondario si fosse votato e poi raccolti a Palata i voti di tutti e cinque i circondari. L'Inghilterra sempre favorevole; la Camera Prussiana con lieve maggioranza si pronunziò a favore dell'unità ed indipendenza italiana. La Francia ancora incerta per la Questione romana. Al corpo di guardia era affisso il proclama del Governatore per i festeggiamenti da farsi per l'arrivo del Rè Vittorio Emanuele in Napoli. In esso erano designati a deputati della festa il Sindaco e il Capo Compagnia, più un altro da scegliersi da questi fra i cittadini più distinti per probità e liberalismo. La scelta cadde su Raffaele Maselli. Venne la musica di Guglionesi. Nella prima uscita si fermò alla spezieria; suonò e cantò: Viva l'Italia costituita! La sera sul tardi si girò pel paese con la banda cantando il medesimo inno. Pochi lumi si vedevano alle finestre dei massari, anzi era oscurità da per tutto, tranne nella piazza, e a furia di grida: "Fuori i lumi! Fuori i turni!" s'indusse taluno a metterli fuori. Vi fu una gazzarra presso la casa dei Ricci ed una grandinata di pietre al loro portone. Quattro giorni durò il festeggiamento e quattro sere il portone dei Ricci fu tempestato di pietre. Essi erano tornati dal carcere lo stesso giorno 23. Vi fu il Tè Deum il 26 in Chiesa ed un discorso di D. Peppino Monaco il canonico. Ricci D. Peppino parò i balconi del palazzo ducale di drappi tricolori. I canti della sera erano l'Inno Garibaldino: Viva l'Italia, e quello scritto dal Carabba: "Esultiamo, o fratelli, è spuntata...". Il Rè Vittorio il 7 fece il suo ingresso in Napoli, senza voler attendere che si compissero gli archi trionfali e gli altri trofei. Garibaldi la notte del 9 partì da Napoli per la sua isola di Caprera, dopo aver rassegnato nelle mani del Rè la Dittatura l'8. Con tutti i Ministri si stabiliva la Luogotenenza in persona di Luigi Carlo Farini, nominato con Decreto dell'11, e di De Pretis nella Sicilia. Giorgio Pallavicino era il Prodittatore a Napoli, Mondini in Sicilia. L'8 si presentava al Rè il risultato del Plebiscito appunto quando Garibaldi e il ministero rassegnavano al Rè i loro poteri insieme coi Prodittatori. Il Plebiscito del napoletano fu promulgato il 3 lunedì dal Consigliere della Gran Corte suprema di Giustizia Presidente Aiutta, che pronunziò un breve discorso. Il Principe Eugenio di Savoia giunse il 12 gennaio a Napoli quale Luogotenente del Rè, con Costantino Nigra e il Segretario. A Palermo il 3 gennaio si dimetteva la Luogotenenza e il Consiglio fra le grida di Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele! L'ultima sera vi fu nella Casa Comunale una cena fra tutti i galantuomini e i preti coi bandisti. Si fecero dei brindisi da D. Alfonso Irace e da D. Antonio Argentieri. Infine si cantò il Misererò borbonico: Misererò — egli è morto Sir Checchino... Per la festa si spesero ducati 170 oltre i 3 maritaggi e ducati 60 di elemosina a carico della Beneficenza. Si fecero pure i funerali ai morti dell'esercito meridionale: erano due garibaldini veneziani facenti già parte degli 800 della Legione della morte. Degli 800 non avanzarono che qualche centinaio che assistettero ai funerali e piansero a lagrime dirotte, mentre il Sacerdote Rossi recitava un'orazione funebre. Un altro sacerdote, De Gregorio, pronunziò un discorso per la festività. Vi furono due bande e spari continui. Ducati mille si spesero, dei quali 500 dal Comune e 500 dai cittadini. Rè Vittorio giunse a Palermo il 1° del mese. Grande era la folla in quella città: più di 400 mila, accorsi da tutta l'isola. La carrozza del Rè volle essere tirata dal popolo, ne fu possibile impedirlo. Cosa che a Napoli non si vide. Nelle chiese e nelle congregazioni i preti, i frati e le monache diffondevano il malcontento per le nuove leggi che, abolendo dei monasteri e riducendo le collegiate ed altre prerogative, li danneggiava. Roma divenne il covo della reazione e di tutti i nemici d'Italia. I soldati pontifici con qualche accozzaglia di stranieri e borbonici, militari e no, molestavano le frontiere e i confini dell'Umbria, facevano strage e massacri in nome del cattolicismo. Il Papa dava di piglio alle armi spirituali: scomunicò il Rè Vittorio e minacciò di fare lo stesso con Napoleone III dopo che questi si pronunziò apertamente a favore d'Italia. Nel Senato di Francia il Principe Napoleone perorò la causa d'Italia; molti però erano ostili, specialmente i prelati, che mal vedevano cessare il potere temporale del Papa e l'Italia unita. In casa di un tal Colonna, arrestato, si rinvennero ducati 50.000 ed armi borboniche. Si tentò, nel gennaio 1861, la insurrezione nelle Calabrie e negli Abruzzi, dove fu scoperta una trama ordita da capCT (come si chiamavano là i ricchi e gli aristocratici), fra i quali i marchesi Crognali di Lanciano, messi in arresto. A Napoli si agitava un partito (febbraio 1861) Murattista. Nell'Arsenale, da quei maestri si voleva fare un'amministrazione con bandiera francese, e perciò ne furono arrestati 200. In Basilicata altri moti in favore dei Borbonici. Truppe borboniche, ricevute nell'esercito nazionale come nucleo del 50° corpo, turbarono l'ordine in Avellino, Pratola ed altrove. Quattro soldati dei più facinorosi furono arrestati in Avellino. Il 23 dicembre a Furci altra reazione con uccisioni, ferimenti e saccheggi; a Lanciano vi fu una baruffa sanguinosa fra galantuomini. Aquila e gran parte di quella provincia erano in istato d'assedio. Nel Teramano facevano il bello e il cattivo tempo i briganti e — per dire la cosa come era — i borbonici, che si conoscevano fino a 3 miglia da Teramo, l'8 diedero molto da fare alla legione de Virgilio di Notaresco, a 50 Guardie Nazionali di Teramo ed a 60 Piemontesi. A Civitella del Tronto e ad Ostuni, idem. Il 10 gennaio a Napoli, moti reazionari repressi. Arresti di ex ufficiali borbonici, fra i quali Palmieri, Marra, Palizzi, Barbalonga e di ex gendarmi e di Preti predicatori. Il 5 dicembre 1860 era cominciato il fuoco contro Gaeta. Il blocco non era stato ancora riconosciuto. L'Imperatore dei Francesi, sempre ambiguo nei nostri rapporti, veniva acremente biasimato dai fogli napoletani e inglesi. Era la squadra francese che impediva il blocco, proteggeva Francesco (la sua persona, si diceva, ma forse tutto). La squadra tirò anche sulle navi della nostra marina, allorché esse cominciarono a tirare contro Gaeta, e dovettero perciò ritirarsi. Le operazioni dei Piemontesi rimasero limitate dalla sola parte di terra, sotto il comando di Menabrea e di Cialdini. Il fuoco degli assedianti faceva gran danni. Una bomba mandò in rovina parte del palazzo reale, sicché Sofia fu costretta a lasciare la città e Francesco a dormire la notte a bordo di un piroscafo spagnuolo. Tre gendarmi erano ancora a Gaeta: Vecchione, Bosco e Cotrafiano. Ufficiali e sottufficiali si erano dati e si davano quasi tutti a Vittorio che li graduava. A Gaeta le bombe fioccavano ininterrottamente. I civili si riparavano nei fortini blindati. I soldati tumultuarono, e perciò furono mandati via 2000 della Guardia Reale che si dettero alle truppe piemontesi. Partito Francesco, lasciava il comando al Generale Bosco. Prima di partire volle una ecatombe: 112 prigionieri garibaldini di Napoli furono fucilati per suo ordine. La capitolazione seguì la notte sul 14 a 6 ore e mezzo. Si suonarono le campane a festa. Si andò poi cantando per l'abitato con un violino, una chitarra e un basso d'ottone, e D. Federico Sacchetti ben riscaldato di vino faceva arrivare alle stelle gli evviva misti a bestemmie e male parole. Suonavano D. Marco Pietro di Pietro, D. Nicolangelo Sozio e D. Paolo Paterno. Si cantò il Misererò a Francesco: Misererò Misererò / Egli è morto il Sir Checchino / Morto egli è di colorino I ecc. Il 18 febbraio si cantò il Tè Deum e si dette la Benedizione del SS. dopo la messa cantata. Le Guardie, capitanate da D. Raffaele laviceli, percorrevano tutto l'abitato fra batterie sparate in diversi punti. Si vedevano bandiere tricolori con lo stemma Sabaudo, alle finestre di D. Bonamico Sozio e di Luigi Sacchetti, alla bottega di Francesco Giovannelli, ex borbonico, al nuovo caffè di Giovanni d'Onofrio. II 14 marzo si celebrò il natalizio di Rè Vittorio e quello del Principe di Piemonte. D. Flaminio Monaco fece il solito discorso. Esposizione del SS. Si sorteggiarono le dotazioni a due orfane e si dispose l'elemosina per i poveri. La sera illuminazione al Corpo di Guardia, spari e suoni di campane, lumi alle finestre. D. Paolo Paterno accomodò il solito tosello dentro il corpo di guardia coi quadri di Vittorio Emanuele e Garibaldi. Tè Deum con parata dopo la messa. La sera, sparo al bersaglio col premio di un caciocavallo, una specie di cuccagna su un palco sul piano della Portella; quattro bacini di maccheroni mangiati da quattro poveracci con le mani legate al tergo; elemosina di 22 ducati, maritaggio di due orfanelle, illuminazioni e spari.

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LA PRESA DI ROMA - LA MORTE DI VITTORIO EMANUELE II E DI PIO IX - FATTI E FIGURE DAL 1866 AL 1878

Un grande uomo di Stato, il principe di Bismark, aveva concepito il disegno di unire tutte le genti tedesche, stringendole attorno alla Prussia. L'Austria, potente ed ambiziosa, era gelosa della Prussia che voleva sostituirla nel primato tra le popolazioni tedesche. La guerra scoppiò; l'Italia si schierò a fianco della Prussia. Il 20 maggio 1866 il Presidente dei Ministri, barone Bettino Ricasoli, annunziava al Parlamento che il Rè aveva dichiarato guerra all'Austria e si disponeva a prendere il comando supremo dell'esercito. Seguì il proclama del Rè che diceva di riprendere la spada di Goito, di Pastrengo, di Palestre e di S. Martino, e che voleva essere ancora il primo soldato dell' indipendenza italiana. Il governo italiano mandò in campo 200 mila soldati e 30mila volontari. L'Austria contrappose 180mila uomini. La mancata unità delle forze, congiunta con la indeterminatezza dei piani strategici e la gelosia tra i due comandanti supremi, La Marmora e Cialdini, furono cagione dell'esito infelice della campagna. Il 24 giugno 1866 — era l'anniversario della battaglia di S. Martino — vi fu battaglia decisiva a Custoza. Fummo sconfitti. Il Principe Umberto, a Villafranca, sgominò gli ussari polacchi e ungheresi: lui solo si distinse molto. I Prussiani invece passavano di vittoria in vittoria e a Sadowa, in Buernia (3 luglio), distruggevano l'esercito Austriaco. Garibaldi, coi volontari, batteva i nemici a Rocca d'Anfo, al forte d'Ampola, a Bezzecca (18 luglio) inseguendoli fin sotto Trento. Stava per entrarvi quando gli giunse l'ordine di sospendere le ostilità per l'armistizio fra i belligeranti. Sconfitti fummo anche a Lissa (18 luglio). La battaglia navale, per l'incapacità del Comandante Ammiraglio Persano, fu disastrosa. Il trattato di pace fu firmato a Vienna il 3 ottobre. Nonostante gli insuccessi delle anni italiane, la guerra del 1866 fruttò all'Italia l'annessione della Venezia per le strepitose vittorie dell'alleata Prussia. L'Austria cedeva la Venezia a Napoleone, imperatore dei francesi. Questi la dava all'Italia. Il 22 i Veneziani votarono il plebiscito; il 7 novembre, Vittorio Emanuele faceva il suo ingresso in Venezia fra il delirio del popolo giubilante. I soldati di Montenero che parteciparono alla guerra del 1866 furono: Pasquini Filippo, Toscano Marino, Potativo Vincenzo, Sacchetti Antonio, Fiore Nicolanlonio, Chica Luigi, Di Paolo Antonio, Benedetto Zenone, Lemme Nicolamaria, Colagioia Michelangelo, D'Aulerio Michelangelo, ecc.

La presa di Roma (20 settembre 1870) — La guerra scoppiata tra la Prussia e la Francia ci diede l'occasione di liberare Roma dal dominio papale. Volontari tentavano d'impadronirsi della città di Roma. I fratelli Cairoli perirono eroicamente a Villa Glori. Garibaldi vinceva a Monterotondo, e respingeva a Montana una colonna pontificia condotta dal Generale Kangler, ma le milizie francesi del De Failli lo ributtarono indietro. Altri volontari si preparavano a combattere. Vittorio Emanuele allora scrisse una lettera a Pio IX, in cui, facendo appello al cuore del Papa "con affetto di figlio, con lealtà di Rè, con animo d'Italiano" lo pregava di voler consentire che le sue truppe, già a guardia dei confini, s'inoltrassero al fine di mantenervi l'ordine e tutelare la sicurezza del Pontefice. Il Papa rispose che egli avrebbe ceduto soltanto alla forza. Il Ministero di cui era capo Giovanni Lanza, ordinò subito al Generale Raffaele Cadorna di varcare la frontiera e di occupare lo Stato della Chiesa. I Francesi, che stavano a presidio del dominio temporale, in seguito ai disastri militari patiti nella guerra contro la Prussia, furono richiamati in patria. Il Cadorna in pochi giorni giunse presso Roma e la prese la mattina del 20 settembre dopo cinque ore di combattimento fra Porta Pia e Salaria. Il 2 ottobre il popolo romano votava il plebiscito. Un mese dopo il Governo italiano, con la legge delle guarentigie, proclamò l'inviolabilità della persona del Sommo Pontefice, gli concesse gli onori e le prerogative reali, la massima libertà nell'esercizio del magistero religioso, la franchigia postale e telegrafica e un'annua rendita di 3.225.000 lire. Il 2 luglio 1871 Vittorio Emanuele fece il suo ingresso a Roma tra l'entusiasmo indescrivibile della popolazione e nel mettere piede nella reggia del Quirinale disse: "A Roma ci siamo e ci resteremo". I soldati monteneresi che parteciparono alla presa di Roma furono: Artobano Filippo e d'Aulerio Michelangelo.

Arresto di briganti nel 2 marzo 1872 — I briganti arrestati appartennero tutti agli evasi dalle prigioni di Chieti ed erano: Andrea De Angelis da Acerra, Domenico Colaneri da Castelfranco, Giuseppe delle Donne da Montenero di Bisaccia e Luigi Berardi da Guilmi. Questi arresti, importantissimi, furono dovuti all'opera del Delegato di P.S. Sabbia di Vasto e del noto maresciallo d'alloggio dei RR. CC. Cav. Chiaffredo Bergia, del brigadiere Crescini e di pochi altri carabinieri e soldati, che in totale furono 28. Il Bergia era conosciuto per altri arresti di briganti eseguiti nell'Aquilano e presso Roma. Gli arresti si eseguirono con l'aiuto di un vecchio manutengolo, certo Barattucci, del comune della Rocca nella cui masseria i briganti avevano preso stanza. Costui si recò dal Delegato di P. S. e poi al Sottoprefetto promettendo di consegnare i quattro briganti a patto che gli fossero date le lire quattromila messe in premio. Per garanzia si fece inoltre rilasciare dal Sottoprefetto una dichiarazione scritta. Tutto concertato, il Barattucci tornò tra i briganti nella sua casa di campagna, la quale era situata in mezzo a un campo seminativo senz'alberi. Venerdì a sera, verso le 23 la casa fu accerchiata, mentre i briganti se ne stavano sicuri, tanto che non avevano messo nessuno alla vedetta. Il Delegato ordinò al Barattucci, il quale si trovava fuori della casetta, di avvisare i suoi gentili ospiti che si rendessero prigionieri poiché la casa era circondata da imponente forza e che ogni resistenza sarebbe risultata inutile. Nell' istesso tempo dieci carabinieri salirono sul tetto della piccola casa, che era bassissima ad un piano e perciò senza finestre, tolsero delle tegole e di là minacciarono l'interno, finché i quattro briganti consegnarono per la via del tetto le armi, e così disarmati poterono i carabinieri dalla porta entrare e legarli. Sabato al pomeriggio furono condotti nelle prigioni di Vasto. La domenica mattina pienamente consenzienti si fecero fotografare nel cortile delle prigioni in diverse pose e ciascuno di essi ne volle delle copie e n'ebbero. Con la corsa della mattina del 27 agosto partirono per Lanciano. Uccisione dei briganti Cappella e Delle Donne. — Verso le ore 6 del 3 settembre 1872, un contadino riferiva al Sindaco di Casalanguida che, nella notte antecedente, i briganti Cappella e Delle Donne si erano rifugiati nella sua casa colonica per avervi ricovero fino alla sera susseguente, in cui dovevano riunirsi ad altri compagni. A tale notizia il Sindaco Forchetti F. riuniva un drappello di 14 generosi cittadini della Guardia Nazionale e, insieme con un piccolo distaccamento di 5 soldati ed un carabiniere colà di stanza, li dirigeva verso la località designata per catturare a qualunque costo detti briganti. Divisa tutta la forza in tré squadriglie potè aggirare la casa senza farsi scoprire dai briganti che tranquillamente mangiavano il pasto preparato dal padrone della masseria. D'un tratto, fosse per lo starnazzare delle galline o per altro rumore prodotto dall'avvicinarsi di una squadra, i briganti si misero all'erta, e socchiuso l'uscio della masseria, fecero fuoco sulla forza; in risposta una Guardia Nazionale per nome Sabino Quinto feriva il Cappella al fianco sinistro. I briganti, rinserratisi dentro, puntellavano la porta, e si disponevano di nuovo alla resistenza. La squadra con impeto generoso, e per primo il sig. lesco Scalcila, irrompeva dentro e veniva a colluttazione col Cappella, il quale nell'atto di scaricare nuovamente la propria arma veniva ucciso con diversi colpi. Il Delle Donne intanto cercò di nascondersi tra la paglia ma non gli valse nulla perché i prodi della Guardia Nazionale di Casalanguida tornarono all'assalto minacciando d'incendiario qualora avesse continuato a resistere; il masnadiere infatti, scoprendosi, in ginocchio puntava la carabina contro la forza e faceva partire i colpi inutilmente, in un istante gli furono tutti addosso, e con quattro colpi di fucile lìaccopparono. Così finirono i due più malvagi famigerati briganti Delle Donne Giuseppe di Montenero e Cappella Carminantonio di Casalanguida.

Il brigante pededileno II brigante Nicola Benedetto, pure di Montenero, tenne la campagna e i boschi per molti anni commettendo insieme ad altri briganti rapine, incendi, omicidi. Era assai temuto. Catturato, infine, e condannato all'ergastolo, morì in carcere. I Ricci, feroci avversari del nuovo regime, da un pezzo erano in esilio. Chi di essi ebbe il coraggio di rientrare nel paese natio dove si festeggiava, quasi ogni giorno, la Casa Savoia, Garibaldi e la nuova Italia, una ed indipendente, fu l'Arciprete D. Nereo.

La morte di Vittorio Emanitele II — 9 gennaio 1878. — Nei giorni 17, 18 e 19 gennaio 1878 si sono qui celebrate le esequie del Rè. Quelle del 17 riuscirono più solenni. Il Corpo municipale, gl'impiegati, tutti i civili e i notabili del paese, alle 9 del mattino, dal palazzo Comunale muovevano in corteo preceduti dalla bandiera tricolore in lutto, e dalla banda cittadina suonante la marcia funebre, e, seguiti da molto popolo, si recavano per la via principale alla Chiesa Maggiore, Quivi un gran catafalco era eretto nella navata di mezzo, circondato di ceri e di turiboli, col ritratto del Rè a fronte e sotto vi era una iscrizione latina, e di ceri ardevano tutti gli altari e i candelabri nell'intera colonna. La cittadinanza assisteva in grande raccoglimento alla mesta cerimonia, resa più commovente dalle flebili note della messa funebre eseguita dalla filarmonica e dalla marcia funebre più volte ripetuta. Finite le funzioni il Prof. Gaetano Carabba lesse un breve componimento in versi, e, ricondottosi il corteo al Municipio, l'avv. Raffaele laviceli da uno di quei balconi improvvisò un breve discorso rivolto al popolo che in folla stava ad ascoltarlo. Egli, pur commosso com'era, rammentò le glorie del Rè Galantuomo, spiegando il significato di questo ben meritato appellativo, e illustrando come Vittorio Emanuele abbia compiuta la sua missione di riscattare l'Italia dallo straniero, di unificarla, farla libera, renderle la capitale e rimetterla sulla via dell'antica grandezza.

Morte del Pontefice Pio IX 10 febbraio 1878. — II 10 febbraio di quello stesso anno moriva anche il Pontefice Pio IX. Si ebbero funzioni in Chiesa e suono continuo di campane a morto.

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