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GLI EREMITI E I BRIGANTI

di Duillio Mauro

da: http://www.ilpetilino.it/n00/05_00/052000briganti.htm

L’eremitaggio malandrino di Giosufatte, di Panegrano (alias Vincenzo Scalise) di Panedigrano n. 1860 (alias D. Nicola Gualtieri) e di tutti i briganti, è un buco nero nel bianco manto nevoso, della Sila che luccica al sole mediterraneo, che irrompe dal cielo dalle poche nuvole ogni giorno, anche se anche se non può quel buco nero rappresentato dalla presenza di un fuorilegge sia pure amico e protetto dal frate eremita. Per cui la figura del brigante è solo un segmento di vita e non di più, anzi quando si stempera in un sospiro dell’animo e con la lingua impastata dalla saliva asciutta e le parole, ostacolate dai denti, riesce a dire: "Domani l’altro sarà Natale". Poi tutto sembra vuoto, torna il silenzio scuro, compaiono le ombre; dalla capanna di frasche si leva un respiro di terrore, un alito surreale che lascia il virtuale per la realtà: è il momento che si esce dalla storia per il presente, per trovare se stessi un spazi senza limiti e terre senza padroni; un vivere solitario in un anfratto di roccia, una storia d’amore avventurosa, tenera e lacerante, di un amore folle, con gli occhi del brigante che fissano un arco di cielo infinito la cui maestosità ammira ogni mattina dalla sua estancia; il suo indice punta, una per una, quelle poderose strutture all’orizzonte, da mito vivente, avido di raggiungere a libertà fisica ed interiore ove è rimasto appeso come un pipistrello. Ed è qui che scopre il suo valore. Per un Giosufatte entrare nella chiesa vuol dire che la sua mente si affolla di emozioni e quella che domina, guardando le pitture bibliche alle pareti, è che le anime hanno abbandonato i corpi e si trovano in paradiso con Dio. I grandi miti hanno avuto sempre bisogno della distanza, della solitudine, e persino di un po di mistero. Eremiti, briganti e rurali, privati delle loro nicchie, hanno sempre avuto bisogno di una divinità (pagana o cristiana) da odorare e in Occidente hanno avuto bisogno di colmare il vuoto lasciato dalla desacralizzazione, che destasse in loro non tanto delle idee quanto delle passioni; di parlare più che alla mente al cuore. Mentre per D. Nicola Gualtieri (Panedigrano) l’essere brigante vuole anche dire ricevere dalla regina Maria Carolina una lettera così formulata (V. Calabria, pag. 93): "Viva e viva veramente il fedele, bravo e zelante mio Panedigrano. Spero con l’aiuto di Dio e dei vostri fedeli servigi rivedervi a Napoli e provarvi la mia sincera eterna gratitudine" mentre dopo che i borboni soffocarono le varie sommosse il Panedigrano non solo fu nominato Maggiore, ma ebbe una dotazione di 40.000 ducati. Và altresì menzionato che un certo brigante Salvatore, graziato dopo 44 anni di galera, fu ha servizio della cattedrale di S. Severina ed è documentato che fino al 1911, dalla regina Maria Sofia, dalla Baviera, riceveva assegni e denaro. Dal profondo della sua anima liberale l’immagine oleografica espressiva, in certi momenti, evidenzia come le labbra del brigante "neocolto" coniugano luccicanti neologismi, da vero maestro nella resa del pensiero, dati da fulminanti frasi, in questo spazio violento e fin troppo esplicito; egli vive la sua messa in scena in dialetto calabrese: "U juacu sta finisciannu", espressione filosofica alla Trum (John Trum, prof. Gallese, raffinato studioso dei dialetti calabri) difficile da interpretare correttamente, perché articolata in un momento particolare. Una sorta di autoconfessione, copiosa ancorché controllata, a volte sincopata, che sgorga nel torpore allucinato dalla veglia. Un grumo di suoni incompresi cantati o citati come uno strano lessico senza vocabolario o grammatica. Una specie di "lingua franca" alla Hamingway buona a nominare solo ciò che sta sfumando dietro la luce. Eppure in questo deserto la sua filosofia (che c’è in ognuno di noi) può essere assecondata (oppure no) finche resta l’uomo con la sua umanità e cultura. Il brigante non ha freddo senza sole; né il tramonto gli fa morire l’anima. Il suo essere brigante nasce da una rara fusione genetica tra carattere e personalità. Egli ha perso l’orientamento, viaggia più con la fantasia che con la legge. Un monologo interiore, ecco, forse la definizione più giusta da cui emergono vividi i momenti salienti di una vita così alta da superare i confini del momento, che cessa di essere moda brigantesca per diventare arte. L’eremita, testa bassa sul petto senza lacrima sul viso, è impegnato nella preparazione del suo cibo, condito con olio di lentisco (scino) raffinato sulla pelle di pecora al calore della grotta. Tra loro si scrutano a vicenda. Il brigante per sua calcolata scelta di vita, ha avuto un destino biografico e postumo estremamente più complesso di ogni altro uomo normale; mentre sotto certi aspetti canonici è da paragonare all’eremita paradossalmente con il linguaggio che spesso converge con quello dell’eremita ciascuno col suo timbro e la sua verità. Essi vivono sotto lo sesso sole, sorgono sulla stessa terra, non sono diversi, non sono uguali: due personaggi abbaglianti. Giovanili adesioni alla vita – società poi ripudiata per un nuovo tipo di storia umana per loro ed eredi; da sintetizzare così: cosa sono senza di te vita, monologo tutto il mio sentire, muto ogni mia gioia. Rispettosi della storia ch’è, poi, la coscienza e l’orgoglio della loro identità. Una polifonia di vita reale e virtuale, funzionale insieme nella quale si intrecciano legami sempre evidenti. Senza voler entrare nel merito del pensiero di entrambi, la cui indagine spetta agli specialisti (storici – filosofi) in questo rapporto certamente esistono dubbi su dubbi, misteri su misteri pur se le loro identità sono uguali, uniche, distinte, irripetibili, necessari l’uno all’altro. Entrambi hanno la stessa idea magica della luce del giorno che certi selvaggi hanno della foto: scappano perché temono che i fotografi rubino loro l’anima. Anche quando malgrado tutti i limiti, le nostre anime sono ben protette ed il nostro voto è libero. La differenza tra i due è di natura non di grado. Di fatto il problema apparso in ogni epoca è stato talmente insolubile che gli antichi, e anche qualche moderno, videro nel linguaggio umano una istituzione divina. Dopo il dibattito su questo tema il risultato è stato negativo, non avendo alcun mezzo per sapere come il linguaggio mano abbia potuto nascere progressivamente dalla comunicazione animale (Società linguistica di Parigi). Strano il loro destino che forse erano nati per la purezza e la semplicità. Quando poi le due anime nella loro testa hanno esaurito il dibattito, resta il dubbio sull’interpretazione del "giusto e dell’ingiusto". Il brigante come l’eremita non percorre i sentieri battuti; essi, sia pure per motivi diversi, opposti e non inutili, percorrono i viottoli ove la rugiada non presenta orme alcune ne di sbirri e nemmeno di umani sospetti. Impietosa l’immagine del brigante: un uomo furbo, perspicace, che mente come respira, i cui tratti distintivi sono l’invidia, la sospettosità, l’incubo, l’odio, mentre racconta orgoglio e dannazione del mestiere del brigante senza volere essere mai ufficiale; egli ha spiccato il senso del "transuente" che lo rende vivo la sera e morto la mattina successiva, quando si sente piovre addosso le gocce d’infelicità. Come brigante egli impersona la dimensione del fuorilegge. Complici i baffoni che ne fanno un volto indimenticabile per i caricaturisti, complici le amanti. Sta di fatto che l’identità personale del brigante è data soprattutto dai tratti somatici del volto: canali – linguaggio del senso della rappresentazione dell’essere, che a chi è in grado di "leggerlo" raccontano il rango, nonché gli incarichi "corporativi" all’interno del gruppo del brigante. Tratti carichi di significati simbolici che vanno dalla potenza virile alla spietatezza del comportamento personale. Una specie di gatto nero o di corvo la cui nerezza funerea assieme a streghe e stregoni, li ha posti al centro di certe tradizioni, simili a quelle di "psicopompi", figure mitiche capaci di traghettare, nell’aldilà per il ponte di San Giacomo, le anime oppure ricondurle indietro, qualora non siano accettate. L’andatura di questi umani appartenenti, per destinazione sociale e di genere agroico, costretti a praticare viottoli aspri a sagoma deformata dall’incuria non è dissimile da quella descritta dal Maupassant per l’aratore, quando dice: "Gli uomini camminano, con passi lenti movendo tutto il corpo in avanti ad ogni spinta delle loro gambe storte, deformate dai lavori pesanti, dal loro abituale spingere sull’aratro" osservando che quel mondo di alberi, frasche , neve, fumo, freddo, ha modellato la loro personalità. Una fatica che va oltre i tempo in cui Maupassant (1860-1893) la descriveva così efficacemente non risparmiata dal rumore del rotolar del tuono da un capo all’altro del cielo, né da esso interrotta. Da dove si deduce che l’amor per le nostre terre è parte importante dello spirito calabrese, petilino in particolare; né la petilinità, così sentita dai suoi abitanti, si esaurisce qui; si esprime nella vitalità delle piazze, che erano gli spazi liberi medievali, come altrettanto vigore si può incontrare nei vicoli e nelle rughe, canticchiando:

Tuttu a tu munnu passa:

A speranza e ra poesia.

E de sta calabra terra

Resta sulu a nostalgia.

E quannu a gente parta

A Petilia na lacrima lassa.

L’uomo brigante ama il bosco, ma più ancora le sue manie, i suoi ritmi, le sue ossessioni colorano un carattere tragico e lo costringono a sopravvivere sospeso su di un abisso; considera il tempo una scomposizione artificiosa dell’uomo in ore, giorni, secoli. Per i dubbiosi sarebbe bello venire sul belvedere del santuario della Santa Spina di sera, al tramonto, quando l’ora in cui tutta la vita va ad attraccare alle rive dell’oscurità e del sonno, a sostare su questo poggio ed inerpicarsi e tuffarsi, fin che si vuole, nella festa di sogni denominata "Sagra del gelato" fatto in casa dalle mani fatate e gli ingredienti D.O.C. dalle donne petiline. Qui la suggestione nostalgica è più forte che altrove, avvertendo l’eco discreta di un tempo presente. Mentre la luna investe le argentee foglie dell’olivo; si vedono apparire come dei lumi dorati sempre più numerosi; l’inconsueto fenomeno trova presto la sua veritiera spiegazione: i raggi luminosi fanno riflettere come specchi dei calanchi argillosi messi a nudo dall’azione erosiva del vento, le cui sfaccettature si accendono e si spengono al lento volgere del satellite nel cielo; che richiamano alla memoria la strana leggenda del valzer di Alogna, secondo la quale "nelle notte di plenilunio le anime del purgatorio in lugubre processione, sono condannate a scalfire con un ferro le pareti, facendosi luce con una fiammella accesa sul mignolo della mano libera". Le leggende, si sa, non sono mai casuali: il fatto che la dura vita dei campi ha sempre avuto un timore reverenziale delle notti di luna, viste come occasioni di incontri di esseri paurosi ed ostili, capaci di scatenare la furia di elementi avversi. Lo "spazio vitale" di quelle popolazioni si limitava agli spazi prossimi: calanchi, guglie di argille scagliose, aria lugubre non sono affari loro, come il nero del vuoto che non consente neanche la bestemmia. Paradossalmente la colonizzazione umana delle terre di Filottete (oggi Marchesato calabrese) non venne dal monte, ma dal mare, e proprio ad opera di genti di razza e bilingua greca, spinte dalla pressione demografica e religiosa che avevano reso insufficiente lo spazio alle popolazioni dell’antica Grecia favorite da accordi civili e religiosi dei versanti marini. Il bosco alla coppia appare dapprima "pauroso", estraneo fatto di "Cose mai viste"; poi questa potenza, apparentemente terribile gli si incarnerà benigna fino a guarirli dalla loro caparbia signora solitudine. Questa intensità della percezione è possibile soprattutto alla S. Spina dove i paesaggi si presentano come vuoti o quasi: il mare dove sembra non esserci nulla, i deserti, le pianure brulle; in realtà questi luoghi sono infinitamente variati, come il trasecolare di una sera e l’osservazione più paziente non finisce mai di sondarne varietà e significato. Anche se per impossessarsi di quel trasecolare del vuoto c’è bisogno di quella preminente impressione di vuoto mentale. Dove la crescita della luna non è un’espressione metaforica. La luna cresce, è al colmo, e poi scema. Al colmo la luna incomincia ad essere resistente e dura, buona all’aratura, ai travasi; alle conserve, ai lavori di donna e di uomo. Qui l’aria è pregna di rassegnazione e l’uomo è nobile nel suo star fermo per scacciare l’altrui noia; tutto sembra scorrere col peso degli anni della storia, che sono tanti senza assordare lo scontro col moderno. Lontano si sente una melodia: è il canto mediterraneo dei giovani del Marchesato che si divertono consapevoli di essere figli di quella misteriosa terra le cui argille testimoniano la storia di riti e delle tradizioni, anch’essi vogliosi nel prendere l’ossequio della propria gente. Sollecitando infiniti orizzonti alla fantasia e fondendo realtà e legenda in un’unica ed affascinante esperienza, asseverando l’assonanza tra Natura e leggenda che aderiscono perfettamente e generano una singolare topografia mistica, unica e tra le più suggestive che riescono a dare ai visitatori ancora un senso di magia, mentre alle spalle la foresta silvana di notte un autentico concerto di suoni laceranti o carezzevoli, nitidi o ovattati, ma sempre avvolti dal grande mistero di una natura soggiogante vergine. Una dicotomia filosofica convergente oppure un binomio funzionale, il cui ingrediente fondante è la solidarietà …

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