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Francesco II di Borbone ultimo re del Regno delle Due Sicilie

 

Il Colonnello, poi Generale BOSCO dell'Esercito Borbonico

da "GARIBALDI le mie memorie" Alberto Peruzzo Editore, Vol. I, 1982

FRANCESCO II DI BORBONE

FRANCESCO II

Proclama di Francesco II a Napoli (6.9.1860)

Proclama di Francesco II a Gaeta (8.12.1860)

Proclama di Francesco II a Gaeta (14.2.1861)

Uno spietato ritratto di FRANCESCHIELLO

LA REGINA MARIA SOFIA

Le rivelazioni impunitarie della pentita Costanza Diotallevi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCESCO II DI BORBONE

Figlio di Ferdinando II e della prima moglie Maria Cristina di Savoia (Napoli 1836 - Arco, Trento 1894) noto anche con il soprannome di Franceschiello. Salito al trono il 22-V- 1859, seguì l'indirizzo politico del padre, profondamente reazionario. Si oppose ai tentativi di riforme del primo ministro Filangieri. Del suo carattere debole cercò di profittare la moglie Maria Sofia di Baviera per prendere la direzione degli affari, in contrasto con la regina vedova Maria Teresa. Nel giugno-luglio 1860, al precipitare degli avvenimenti, fece delle concessioni liberali; con l'atto sovrano del 25-VI-1860 annunciò la costituzione e l'adozione della bandiera tricolore. Ma era tardi: la Sicilia era perduta e le province in rivolta. All'approssimarsi di Garibaldi si rifugiò con la moglie Maria Sofia a Gaeta, che difese contro l'esercito piemontese comandato dal Cialdini. Si ritirò poi a Roma, ospitato da Pio IX nel Quirinale, poi nel palazzo Farnese, ereditato dai suoi avi, fomentando intrighi contro il governo italiano e favorendo il brigantaggio politico. Nel 1870 passò in Francia, ove visse privatamente e modestamente a Parigi, ancora con la speranza di poter riavere il trono. In uno dei suoi viaggi per ragioni di cura morì a Bagni di Arco, nel cui Duomo ebbe sepoltura.

da "GRANDE DIZIONARIO ENCICLOPEDICO" UTET, Vol. VIII, 1987

FRANCESCO II

E' passato alla storia come "Franceschiello" l'ultimo re delle Due Sicilie. Rimase sul trono per pochissimi mesi e non fu assolutamente in grado di fronteggiare la situazione. Il padre lo chiamava "Ciccillo", o "Lasagna", per via di una sua smodata (e facilmente identificabile) passione gastronomica. Somigliava secondo il ritratto di uno storico - "più a un timido seminarista che all'energico principe cui sarebbe commesso il drammatico compito di fronteggiare l'aggressione straniera. E un ragazzo pallido, triste, pieno di regale serietà, ma debole e titubante, come chi è più vicino all'ascesi mistica che al richiamo violento dell'azione". Da ragazzo aveva l'aspetto di un seminarista; da adulto somigliava a un prete, più che a un monarca chiamato a impugnare le armi per difendere il suo regno: che, di fatto, non difese. Gli mancava la preparazione al gran compito che si trovò ad affrontare: il padre lo aveva tenuto lontano dagli affari di Stato, probabilmente perché era convinto di avere ancora molti anni di vita davanti a sé, o forse perché non nutriva eccessiva stima per quel figlio dall'aspetto gracile e dal carattere ancor più debole. Appena prima di salire sul trono, Francesco aveva sposato Maria Sofia di Baviera, sorella dell'imperatrice Elisabetta d'Austria, bella e intelligente, che non faceva nulla per mascherare l'insofferenza per l'ambiente chiuso e polveroso della corte borbonica. Ma Sofia contribuì in misura determinante a salvare l'onore della casata nel momento più duro, quando la corte, dopo la spedizione dei Mille, fu costretta a ritirarsi a Gaeta, nell'ultimo lembo di terra rimasto sotto il controllo dei sovrani. Mentre l'esercito borbonico veniva sconfitto ripetutamente dalle camicie rosse, la resistenza di Gaeta fu una pagina di autentico eroismo. Franceschiello si comportò con dignità e coraggio; la regina fu di esempio per tutti gli assediati. Si spostava a cavallo da un angolo all'altro della città per soccorrere i feriti, provvedere alla distribuzione delle razioni (scarse) di cibo, offrire a tutti una parola di conforto. L'assedio si protrasse per cinque mesi: la roccaforte fu abbandonata l'11 febbraio 1861: l'esercito italiano concesse agli sconfitti l'onore delle armi. Francesco morì ad Arco di Trento nel 1894, dopo un lungo periodo di esilio a Roma; Maria Sofia nel 1925, a Monaco di Baviera.

da "Il Carabiniere" Anno LIV N. 2 - Febbraio 2001

 

Proclama di Francesco II a Napoli

Il 6 settembre 1860 Francesco II diè questa proclamazione d'addio:

"Fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi. A tale uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli, da cui ora debbo allontanarmi con dolore. Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei stati, nonostante ch'io fossi in pace con tutte le potenze europee. I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principi nazionali e italiani non valsero ad allontanarla, che anzi la necessità di difendere l'integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l'età presente e futura. Il corpo diplomatico presente presso la mia persona seppe, fin dal principio di questa inaudita invasione, da quali sentimenti era compreso l'animo mio per tutti i miei popoli, e per questa illustre città, cioè garantirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alla passione di un tempo. Questa parola è giunta l'ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dell'esercito, trasportandomi là dove la difesa dei miei diritti mi chiama. L'altra parte di esso resta per contribuire, in concorso con l'onorevole Guardia Nazionale, alla inviolabilità ed all'incolumità della capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del ministero. E chieggio all'onore e al civismo del sindaco di Napoli e del comandante della stessa guardia cittadina di risparmiare a questa Patria carissima gli orrori dei disordini interni e i disastri della guerra civile; al quale uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e più estese facoltà. Discendente di una dinastia che per ben 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averlo salvato dagli orrori in un lungo governo viceregnante, i miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti. Qualunque sarà il suo destino, prospero o avverso, serberò sempre per essi forti e amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi face di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici".

FRANCESCO

NOTA:

Il proclama destò profonda impressione perché nessun cittadino, a qualsiasi fazione appartenesse, non poteva non riconoscere le verità in esso contenute e non ammettere che con la sua volontaria partenza il re, "Franceschiello", come comunemente lo chiamavano i napoletani, si comportava nobilmente evitando alla città di Napoli lutti, rovine e distruzioni. Nel pomeriggio i ministri si recarono alla reggia per salutare il re che si dimostrò calmo, cortese e perfino sorridente, rivolgendo ad ognuno qualche parola, e fu in tale occasione che disse a Liborio Romano: "Don Libò guardateve 'o cuolle", facendogli in tal modo capire che era a conoscenza degli intrighi politici che stava macchinando. Ad un altro ministro, del quale conosceva la tendenza unitaria, disse: "Voi sognate l'Italia e Vittorio Emanuele ma, purtroppo, sarete infelici".

da: "BRIGANTI & PARTIGIANI" - a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano - Edizione Campania Bella

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Proclama di Francesco II a Gaeta

Il 14 febbraio 1861 Francesco II diè questa proclamazione d'addio:

"Generali, uffiziali e soldati di Gaeta. La sorte della guerra ne separa. Combattuto insieme cinque mesi per la indipendenza della patria, sfidando e sofferendo gli stessi pericoli e disagi, debbo in questo momento metter fine a'vostri ero ici sacrifizii. La resistenza divenuta era impossibile. Se il desio di soldato spingevami a difendere con voi l'ultimo baluardo della monarchia, sino a caderne sotto le mura crollanti, il dovere di re e l'amore di padre oggi mi comandano di risparmiare tanto generoso sangue, la cui effusione or non sarebbe che l'ultima manifestazione d'inutile eroismo. Per voi, miei fidi compagni, pel vostro avvenire, per premiare la vostra lealtà e costanza e bravura, per voi rinunzio al bellico vanto di respingere gli ultimi assalti d'un nemico che questa piazza difesa da voi non avrebbe presa senza seminare di cadaveri il cammino. Voi da dieci mesi combattete con impareggiabile coraggio. Il tradimento interno, l'assalto di rivoluzionarii stranieri, l'aggressione d'uno Stato che dicevasi amico, niente v'ha domato, nè stancato. Tra sofferenze d'ogni sorta, passando per campi di battaglia, affrontando tradigioni più terribili del ferro e del piombo, siete venuti a Capua e a Gaeta, segnando d'eroismo le rive del Volturno e le sponde del Garigliano, sfidando per tre mesi in questé mura gli sforzi d'un nemico padrone di tutta la potenza d'Italia. Per voi è salvo l'onore dell'esercito delle Due Sicilie; per voi il vostro sovrano può tenere alto il capo, e nella terra dell'esiglio dove aspetterà la giustizia di Dio, il ricordo della vostra eroica lealtà gli sarà dolcissima consolazione nelle sventure. Sarà distribuita una medaglia speciale che ricordi lo assedio ; e quando i miei cari soldati torneranno in seno delle loro famiglie, gli uomini d'onore s'inchineranno al loro passaggio, e le madri mostreranno a'figliuoli come esempio i prodi difensori di Gaeta. Generali, uffiziali, soldati, io vi ringrazio ; a tutti stringo le mani con affetto e riconoscenza ; non vi dico addio ma a rivederci. Serba temi intatta la lealtà, come eternamente vi serberà gratitudine e amore il vostro re Francesco".

da "I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD" di Antonio Ciano, Edizione GRANDMELO', Roma, 1996

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno spietato ritratto di FRANCESCHIELLO

(Relazione a Cavour dell'Incaricato d'Affari sardo, conte di Groppello, in data 18.1.1857).

da "Piemontisi, Briganti e Maccaroni" di Ludovico Greco - Guida Editore - Napoli - 1975

"S.A.R. il Duca di Calabria, Principe Ereditario del Regno delle Due Sicilie, ha compiuto il di 16 del corrente mese il suo 21° anno d'età ed entrò quindi nella sua maggiorita' civile, ed in possesso della considerevole fortuna di cui ereditò da sua madre. Come V.E. ben conosce, questo Principe è figlio unico del primo letto di Ferdinando II ed al popolo napoletano, che ancora per nulla lo conosce, dovrebbe essere caro, perché gli richiama alla mente il ricordo delle virtù della sua augusta madre Maria Cristina di Savoia, e dei primi anni meno infelici e piu' tranquilli del Regno dell'attuale sovrano. Per somma sventura però i pregevoli doni di cui è fama esser stato dotato dalla natura questo Principe, non furono in nessun modo sviluppati da una educazione adatta all'alta posizione quale egli è destinato ad occupare nel mondo. La sua educazione fu informata da uno spirito stolto, l'istruzione che egli ha ricevuto è difettosa in moltissime parti, principalmente per quel che concerne l'insegnamento dell'istoria. La conoscenza pratica degli uomini e delle cose gli fa intieramente difetto, come che tenuto sempre lontano dalla società che egli appena conosce, per quelle poche feste e ricevimenti che hanno luogo a Corte e non avendo mai avuto intorno a se compagni della sua età. A chi lo vede appare triste, annoiato ed indifferente a tutto. Alto alquanto di persona e di complessione piuttosto gracile, è di carattere timido e cupo, e dal suo volto non è mai dato conoscere quali siano le impressioni del suo animo. Dicesi che ami assai suo padre, ma che assai più lo tema e gli obbedisca tremando. Più volte si fece a Corte disegno di maritarlo, ma mai si trovò principessa che avesse, secondo i parenti, le doti che convenissero alle esigenze politiche di questa R. famiglia: quindi, benché molti medici consultati all'uopo, fra i quali il già profugo e celebre Lanza, opinassero per motivi di salute doversi quanto prima ammogliare il Duca di Calabria, finora per le nozze di lui nulla venne concluso. Egli è sempre soggetto ad una severa sorveglianza di giorno e di notte. Ogni suo atto, ogni sua parola sono gelosamente spiati, ed una persona destinata dal Re suo padre dorme tutte le notti nella sua camera. I suoi istitutori vanno annoverati tra gli uomini che hanno fama qui di più incapaci ed inetti, in quanto concerne le scienze e le lettere, e dei più zelanti ed accaniti difensori delle più false e demoralizzanti dottrine, in fatto di principi politici e dell'arte del governare".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA REGINA MARIA SOFIA

(Jean PauI Garnier: Le dernier Roi de Naples, Parigi 1961)

da "Piemontisi, Briganti e Maccaroni" di Ludovico Greco - Guida Editore - Napoli - 1975

Maria Sofia aveva, in mancanza di una dote, la bellezza e il fascino; l'andatura, la voce, lo sguardo, e il coraggio, la fierezza, la classe. Alta, sottile, slanciata, con superbi bruni capelli che talvolta lasciava cadere sulle spalle, avrebbe meritato d'essere dipinta da Van Dick. Graziosa, molto elegante, rivale in gusto e fantasia con l'imperatrice Eugenia, le piacevano particolarmente gli abiti di velluto nero, che disegnavano bene la sua agile figura. Spesso una mantiglia alla spagnola era avvolta con grazia sulla testa. Un viso fresco, degli occhi neri, dolci e vivaci al tempo stesso, un colore delicato, delle graziose labbra sorridenti e ben disegnate, dei brutti denti purtroppo. L'insieme era ugualmente attraente e grazioso, pieno di vivacità e di risolutezza: "Si sosteneva al braccio di suo marito come a quello di un ciambellano di corte", lasciando trasparire la sua indifferenza, sfumata di disprezzo, per questo essere non desiderato. Dei sogni romantici si agitavano sotto quella graziosa fronte. In essa batteva il cuore avventuroso del suo avo, il re Luigi II. Figlia di Giuseppe Massimiliano, duca di Baviera, sorella, tra gli altri, dell'imperatrice Elisabetta d'Austria, la "Sissi" di cui si è tanto parlato, era nata il 4 ottobre 1845 nella tranquilla e bella casa principesca di Possenhofen. Ragazzi. turbolenti, mal allevati, vivevano gioiosamente tra i boschi di questa cara patria, verde e fertile, agevole, tra allegre partite di caccia, sotto gli sguardi devoti e familiari dei carbonai confidenti quanto rispettosi. C'erano i bei cavalli nervosi che Maria-Sofia montava da compiuta cavallerizza, gli adorabili cani da cui non si separava mai. Le piacevano anche i pappagalli e, come tutte le Wittelsbach, detestava i gatti.

MARIA SOFIA, L'ULTIMA REGINA

da: http://crea.html.it/sito/brigantino7/img/navigr633_8.gif

Maria Sofia (chiamata affettuosamente "Spatz", cioè passerotto), nacque nel 1841 a Possenhofen (Baviera) da Massimo, duca di Baviera, e da Ludovica di Wittelsbach. Era la quinta di nove figli. Tra le sue sorelle la più nota sarà Elisabetta ("Sissi"), Sissi che si sposò nel 1854 con il ventiquattrenne Francesco Giuseppe, Imperatore d'Austria. Maria Sofia trascorse la giovinezza in Baviera; dal padre aveva ereditato lčamore per la natura, per la caccia, per i cavalli, i cani e i pappagalli. Era di carattere aperto, pronta a familiarizzare con le persone più umili, indipendente e anticonformista amava lčequitazione, il tabacco, la fotografia. Nel 1858, a 17 anni, fu promessa a Francesco di Borbone, duca di Calabria ed erede al trono delle Due Sicilie. Il matrimonio doveva rafforzare i legami con lčimpero austriaco. Maria Sofia non conosceva Francesco di persona, aveva avuto solo l'opportunità di vederlo raffigurato in una sua miniatura nella quale appariva d'aspetto gradevole. Dopo la cerimonia di fidanzamento, avvenuta il 22 dicembre 1858, venne celebrato il matrimonio per procura la sera dell'8 gennaio 1859. Dopo qualche giorno, accompagnata dalla sorella imperatrice, si recò a Trieste, dove l'attendevano i rappresentanti della Casa Reale delle Due Sicilie con le fregate Tancredi e Fulminante, su cui il 1° febbraio s'imbarcò per Bari. Nella città, in cui erano stati preparati grandiosi festeggiamenti, l'attendevano Ferdinando II, ammalato e sofferente, e il suo sposo. La partenza per Napoli avvenne per mare il 7 marzo, mentre le condizioni del Sovrano si aggravavano sempre più. Lei era molto bella, il corpo alto e snello, gli occhi ridenti, i lunghi capelli neri, l'espressione dolce. Il suo anticonformismo contrastava con il clima tradizionalista della corte borbonica. Ma la sua bellezza e la sua personalità conquistarono il popolo meridionale e Francesco, soggiogato dal suo fascino, le lasciava ampia libertà. Maria Sofia sconvolgeva le abitudini della corte: fumava, andava a cavallo, tirava di scherma, si faceva fotografare, si bagnava nelle acque del porto militare, portava i suoi cani in sala da pranzo. Era al centro delle cronache mondane, mentre in Italia il clima politico si faceva più difficile: il 27 aprile 1859 il granduca di toscana Leopoldo lI, zio di Francesco II, era stato costretto ad allontanarsi da Firenze a causa dei moti fomentati dai Savoia. Due giorni dopo iniziò anche la guerra dei franco-piemontesi contro l'Austria. Alla morte di Ferdinando II, di soli 49 anni, avvenuta il 22 maggio 1859, Maria Sofia si ritrovò regina a 18 anni, accanto ad un re ventitreenne, che le cronache ricordano come impreparato a gestire la profonda crisi del Regno e prevaricato dalla matrigna, la regina Maria Teresa. Ma il fascino e la decisione di Maria Sofia esercitarono su di lui un forte ascendente sia nella gestione degli affari familiari che politici. Ella fu punto di riferimento del "partito costituzionale" e caldeggiò la nomina a capo del governo di Carlo Filangieri. Perorò l'abolizione della schedatura dei cittadini sospetti di liberalismo. Il 7 luglio dimostrò il suo coraggio trattando con alcune Guardie Svizzere in rivolta, chiamate dai napoletani "Titò". L'aumento di popolarità di Maria Sofia, che aveva progettato, in accordo con il Filangieri, di instaurare un regime costituzionale sul modello bavarese, sembra che abbia spinto la regina madre Maria Teresa a ordire un complotto per detronizzare Francesco a favore di Luigi, conte di Trani. Nonostante il fallimento del complotto, la compattezza della classe dirigente del Regno, quella ancora fedele, si dimostrò incrinata. Anche il Filangieri, di età avanzata, rassegnò le dimissioni. A Maria Sofia non restò altro che far rifiorire la vita di Corte, fino a quel momento abbastanza tetra. Intanto il Piemonte dispiegava il suo piano espansionistico, che culminò con l'invasione delle Due Sicilie. Maria Sofia insistette con il marito Francesco II per attuare la resistenza ad oltranza. Dopo la sconfitta dellčesercito borbonico nella battaglia del Volturno, ed il trasferimento del 6 settembre della corte a Gaeta, entrò con ancor più decisione nella dimensione politica e militare. Fece un uso efficace dei simboli e della sua stessa immagine: distribuì ai soldati medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate, adottò un costume calabrese di taglio maschile, affinché il popolo la sentisse più vicina. Costruì e diffuse anche attraverso il nuovo mezzo della fotografia l'immagine propria e della coppia reale. Partecipò personalmente ai combattimenti contro i piemontesi incoraggiando i soldati e visitando i feriti negli ospedali fin quando, il 13 febbraio 1861, venne firmata la resa. Fu in questo periodo che Maria Sofia conquistò l'attenzione e la simpatia di cronisti e letterati di tutta Europa. Della bella e coraggiosa regina scrissero Daudet, Proust, DčAnnunzio. Dopo la capitolazione di Gaeta si trasferì, con Francesco, a Roma, dove rimase fino al 1870, allontanandosene per brevi periodi, con o senza il marito, e progettando la riconquista del Regno. Le cronache raccontano che, vestita dell'uniforme di ufficiale del Regno delle Due Sicilie Maria Sofia, passava in rivista i volontari che parteciparono alla guerra partigiana per la liberazione del Sud Italia. Da ogni parte dčEuropa affluivano a Roma personaggi che il Governo papalino tollerava. Il primo capo di queste truppe fu il colonnello borbonico Francesco Luvara, che uscito da Gaeta prima della capitolazione, con il francese barone Klitsche De La Grange, continuerà a combattere duramente i piemontesi. Altre eroe reduce dalla fortezza di Gaeta fu Emilio De Christen, parente di Napoleone III, il quale diede filo da torcere al generale piemontese De Sonnaz. Catturato, lo salvò dalla fucilazione lčintervento dellčimperatore francese. Non così fu per il generale spagnolo Josè Borges che, catturato a Tagliacozzo dalle truppe piemontesi, finì davanti al plotone d'esecuzione. La fucilazione di Borges fu deplorata in tutta Europa, Victor Hugo lo consacrò primo ed ultimo cavaliere crociato dellčesercito della libertà. Anche il belga marchese di Trozègies, combatté da eroe e infine catturato fu fucilato. Molti combatterono per la liberazione del sud e per Maria Sofia, il nobile tedesco Carlo Kalkreuth di Gotha, il tedesco Zimmermann, il bretone De Langlais e molti altri, tutti finiti sotto il fuoco del plotone di esecuzione piemontese. La lotta della liberazione del sud Italia fu suffragata dal non riconoscimento del Regno dčItalia da parte delle potenze europee (tranne lčInghilterra) e dalle defezioni di quei mazziniani e garibaldini che delusi dal comportamento del Piemonte vedevano nell'insurrezione meridionale, la possibilità di una vera rivoluzione sociale. La guerra di liberazione del sud, durò almeno 5 anni. Proprio per la sua attività politica la regina, durante il soggiorno romano, era stata al centro di un vasto piano di calunnie approntato dallo stato piemontese per screditarla. Il culmine lo si raggiunse nel febbraio del 1862. Era stato architettato un oltraggioso piano diffamatorio. Fotomontaggi, nei quali la testa della regina era stata montata sul corpo di una giovane prostituta ritratta in pose lascive, erano stati diffusi a centinaia e spediti a tutte le personalità internazionali, dal papa all'imperatore d'Austria, da Napoleone III allo zar. Mai nessuna regina aveva subito una tale violenza morale! Fortunatamente le indagini della polizia pontificia portarono alla scoperta e all'arresto degli autori dei falsi fotografici: i coniugi Antonio e Costanza Diotallevi, dilettanti fotografi dal passato burrascoso, ma non certamente agli organizzatori della campagna diffamatoria. Quando ormai la lotta di resistenza era stata soffocata nel sangue, nella notte di Natale del 1869, Maria Sofia ebbe una bambina, Maria Cristina. Sembrava che un po' di felicità dovesse allietare la ancor giovane coppia, ma il destino non sarà clemente con loro. La piccola morì dopo appena tre mesi, nel marzo del 1870. Quando le truppe unitarie occuparono Roma, Maria Sofia e Francesco si trasferirono a Parigi. La coppia non disponeva di grandi mezzi, avendo il governo unitario confiscato i beni dei Borbone e quando Vittorio Emanuele aveva offerto a Francesco la possibilità di rientrarne in possesso, purché rinunciasse ad ogni pretesa sulle Due Sicilie, questi rispose "il mio onore non è in vendita". Riuscirono tuttavia a vivere dignitosamente, grazie al loro prestigio. Dagli anni '80 in poi, per Maria Sofia fu un susseguirsi di sciagure familiari, culminate con la morte di Francesco il 31 dicembre del 1894 ad Arco, presso Trento. Ma nonostante le traversie sofferte, dalla sua residenza a Neully-sur-Seine Maria Sofia continuò a sperare nella restaurazione del Regno, si legò anche a esponenti dell'estrema sinistra. Accolse socialisti, esuli anarchici e il prete Bruno Tedeschi, condannato da un tribunale italiano. Nel 1904 il governo italiano arrestò ed espulse un agente da lei inviato e chiese ai governi d'Austria e di Francia di ammonirla. Durante la prima guerra mondiale trascorse gli ultimi mesi di guerra nei campi di prigionia italiani, facendo assistenza ai "suoi" sudditi, che ignoravano chi fosse quella vecchia signora. Trascorse, solitaria, i suoi ultimi anni a Monaco, dove si spense nella notte del 18 gennaio del 1925. Dal 18 maggio 1984 Francesco II, Maria Sofia e la loro figlia Maria Cristina riposano nella Chiesa di Santa Chiara in Napoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE RIVELAZIONI IMPUNITARIE DELLA PENTITA COSTANZA DIOTALLEVI

di ITALO ZANNIER

da "Il Risorgimento in Pellicola" a cura di Davide Del Duca, IRRSAE Cinemazero, Pordenone, 1991

 

L'affaire Diotallevi é certamente come scrive Piero Becchetti, "il fatto più clamoroso di tutta la storia della fotografia italiana", ma é anche una tra le prime testimonianze della utilizzazione della fotografia per fini politici, facendo ricorso al falso e al fotomontaggio. "Un fatto di inaudita gravità", afferma il De Cesare nella sua monumentale storia di Roma, "accadde nei primi giorni del febbraio 1862, sollevando un grido di indignazione di tutta la gente onesta, né a Roma soltanto, ma a Parigi, a Vienna, a Monaco, a Torino e a Napoli. Furono fatte e distribuite false fotografie ignobili della spodestata regina, né ingiuria più vile fu immaginata contro l'onore di una donna (...) La polizia si mise alla ricerca degli autori di tanta ignominia, e li scopri in persona dei coniugi Antonio e Costanza Diotallevi, giovani fotografi di fama perduta. Furono arrestati...". Era il 6 marzo 1862 quando, con l'arresto dei coniugi Costanza Vaccari e Antonio Diotallevi da parte dei gendarmi pontifici, si concludeva a Roma il primo atto della complessa vicenda di cui intendiamo dare notizia, anche sulla base di un sollecitante volumetto pubblicato clandestinamente nel 1863, che é stato pressoché dimenticato fino a oggi, se si esclude qualche incompleta citazione. I coniugi Diotallevi, che pare esercitassero il mestiere di fotografo a Roma, "al numero 9 di Via del Farinon", vivevano, più probabilmente, "di ripieghi", non essendo rimasta traccia della loro attività fotografica, se si esclude l'implicazione, forse indiretta, nello scandalo delle false fotografie oscene, che avevano per soggetto gli spodestati reali di Napoli, ospiti del Papa, dopo la fuga dal forte di Gaeta il 14 febbraio 1861. Antonio Diotallevi, sottotenente dell'esercito pontificio, "seconda compagnia del primo reggimento Linea Pontificia", era stato destituito e "ridotto a vita del tutto miserabile" a causa del suo matrimonio "senza la debita licenza" con Costanza Vaccari, ventenne e bella, ma povera, (non possedeva la dote richiesta di 3000 scudi), celebrato "per contentar la madre moribonda, alle ore 1 e mezzo della notte del dì 5 gennaio 1859". A causa di questa infrazione ai regolamenti era stato arrestato, ma in seguito liberato, per intercessione della sposa Costanza presso il generale conte De Goyon, comandante del corpo francese di occupazione. Antonio Diotallevi, espulso però dallo Stato Pontificio, si rifugiò temporaneamente in Piemonte, dove entrò in contatto con le organizzazioni patriottiche italiane. Costanza, rimasta sola, nonostante il mestiere di fotografa, pittrice e mosaicista, come in seguito si definì, "studiò di riparare alla miseria non guardando da maritata la sua onestà più gelosamente di quello che avesse fatto mentre era nubile..."; la reputazione dei coniugi Diotallevi non doveva essere comunque delle migliori a quel tempo, anche se non si vuole dare del tutto credito a quanto sul loro conto ebbe a declamare un certo avvocato Dionisi, nel corso di una requisitoria al processo contro i patrioti romani Venanzi e Fausti, dove Costanza, come vedremo, svolgerà il ruolo di "pentita" e quindi di spia, denunciando in modo categorico fatti e personaggi collegati al clandestino Comitato Nazionale Romano, un'organizzazione patriottica pagata dai piemontesi, che dal 1853 stava dando molto filo da torcere alla polizia e alla S. Consulta Pontificia. Durante il processo l'avvocato Dionisi si era, tra l'altro, espresso così; "Mi è forza poi di non discendere a più precisi ragguagli sulla vita e costumi di tali soggetti famosissimi per ogni bruttura e per qualificato lenocinio. E dubbio se i Diotallevi esercitassero il mestiere di fotografo, e neppure la lunga "confessione" di Costanza, pubblicata con note e commenti dal Comitato Nazionale, aiuta a far luce su questa loro condizione professionale; sembra soltanto accertato che Costanza possedeva una "macchina fotografica", il che era comunque per se stessa una colpa, a leggere il comma secondo del famoso "Editto" del Cardinale Vicario Costantino Patrizi, pubblicato il 28 novembre 1861, con lo scopo di controllare usi e abusi nel settore della fotografia, ma soprattutto "perché da questo utile ritrovato delle Scienze niun danno provenga alla onestà dei costumi...". La pena per tale misfatto, "ritenere macchine fotografiche per proprio e privato conto", consisteva nella multa "dagli scudi venti ai cinquanta", mentre per i "Modelli" che si fossero prestati "a essere effigiati in modo, o atto contrario al costume e alla pubblica decenza si riservava "un anno di opera pubblica", qualcosa di simile ai lavori forzati. Infatti, "a pochi mesi dalla pubblicazione dell'Editto, nei primi giorni del febbraio 1862, scoppiò lo scandalo..."; lo scandalo delle false fotografie costruite in studio, e dei fotomontaggi realizzati con forbici e colla, che raffiguravano la bella e giovane regina Maria Sofia, e il marito Francesco II di Borbone, in pose oscene, con lo scopo evidente di porre in discredito sia la Corte napoletana in esilio, sia quella pontificia che ne era l'ospite. Il pericoloso mercato delle fotografie pornografiche, non era però allora a Roma cosi ampio da giustificare la fabbricazione e la diffusione di queste impertinenti e diffamatorie immagini, se non con motivazioni politiche, legittimate invece dalla situazione internazionale assai tesa, dopo la spedizione dei Mille, la proclamazione del Regno d'Italia il 17 marzo 1861, i tentativi garibaldini di conquistare Roma con la forza. I "piemontesi", tramite il Comitato Nazionale Romano, avevano creato a Roma una fitta rete di propagandisti e di agitatori (e anche di "terroristi"), che davano molto fastidio alle autorità pontificie, intenzionate però, anche con l'aiuto degli alleati francesi (il corpo degli zuavi, comandati dal De Goyon, prim'attore in questa vicenda e amante della Diotallevi), alla più rapida repressione. Chi altri, se non gli avversari politici del Borbone e del Papa, poteva aver avuto interesse a diffondere presso le Corti europee le immagini di Sofia così oscenamente allusive? E' improbabile che l'iniziativa sia stata dei poveri, presunti fotografi Diotallevi, come tentarono di dimostrare quelli del Comitato Nazionale Romano, pubblicando il volumetto di ben 204 pagine, nel quale sono riportate e commentate aspramente soprattutto "le rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi nella causa Venanzi-Fausti", in un processo che portò all'arresto di innumerevoli patrioti e fiancheggiatori, denunciati da Costanza in cambio della libertà sua e del marito, accusati come s'é detto, di essere gli autori delle famigerate fotografie, che vennero utilizzate come pretesto per un'ampia operazione di polizia politica. "La Diotallevi, avezza a vendere il suo corpo a chi ne avesse voluto, vendette al Processante la sua coscienza", precisa l'anonimo estensore dell'opuscolo clandestino, che in appendice contiene anche una serie di lettere autografe di Costanza, stampate in fac-simile con una tecnica fotografica, scritte durante la detenzione, e che avrebbero dovuto convalidare la tesi dei "piemontesi" circa la falsità di molte sue dichiarazioni, e comunque ribadire obbiettivamente l'ambiguità della spia pentita Costanza. Questa sosteneva di essersi infiltrata nell'organizzazione piemontese, per conto del generale De Goyon, "tipo antipatico personalmente, e subdolo politicamente", precisa il De Cesare, e di essere riuscita a ottenere una tal fiducia presso i patrioti romani, da meritare l'incarico dell'esazione degli "oboli per il Monumento a Cavour... Ma la Diotallevi, scrive De Cesare, "fu spia, ad un tempo, dei comitati liberali, del generale De Goyon, del De Merode, di monsignor Sagretti, del Collemassi (il Processante, n.d.a.); ingannò tutti e spillò denaro da tutti... Nonostante ciò, Costanza Diotallevi, a poco più di vent'anni riuscì ad essere un personaggio di primo piano, durante l'importante processo politico a "Venanzi-Fausti", e anche se la sua cultura, come quella di altre donne "delle quali in ogni tempo si servì la corte pontificia, adoperandole negli incarichi più gelosi della diplomazia, delle cospirazioni e dello spionaggio (...) non superava una discreta conoscenza della lingua francese...", nelle sue dichiarazioni al Processante, il giudice pontificio Collemassi, riportate nel libretto dell'ottobre 1863, rivela una notevole abilità e furbizia nel destreggiarsi con i fatti e con gli innumerevoli personaggi da lei coinvolti e quindi fatti arrestare. Gli incartamenti relativi alla "rivelazione" di Costanza erano stati poi "sequestrati" dal Comitato Piemontese, che aveva subito provveduto alla pubblicazione e a depositare le carte processuali e le lettere originali, "nell'ufficio del giornale fiorentino La Nazione", ove rimasero "per lo spazio di due mesi a datare dal 1 ottobre (1863 n.d.a.), a disposizione di chiunque avesse avuto intenzione di leggerle e di verificarle. Circa le fotografie in questione, che però nel processo ebbero un parte secondaria e pretestuosa, il Comitato Nazionale Romano tentò di attribuire tutta la "ignobile" iniziativa ai Diotallevi, mentre Costanza invece sostenne nella sua deposizione, che gli scopi dei "piemontesi" erano quelli di fare offesa alla coppia reale, anche mediante altre iniziative, tra cui un'aggressione al Re, non riuscita, lungo i viali del Pincio, e una "impertinenza" a Maria Sofia, durante una delle sue abituali uscite da Palazzo in carrozza. Il processo ebbe inizio il 3 febbraio 1863 e in questa occasione Costanza si offrì di "fornire prove sulla reità del Fausti", abbandonandosi inoltre a un racconto ben più ampio, articolato e senza inibizioni, circa le fotografie oscene delle quali era accusata d'essere l'autrice e che forse non erano neppure in possesso del Tribunale, se Costanza dovette descriverle nel dettagli. Per questa oratoria, Costanza si meritò una sfilza di epiteti poco lusinghieri, da chi ha scritto il libretto in questione, che, di volta in volta, così la definisce: Arianna, Sibilla, fatidica, Signora riservata, Madama, Dulcinea, prostituta, ispirata dama, Dea, Minerva, in un alternarsi di rabbia e di ironia Occupandoci noi ora soprattutto degli aspetti che riguardano la fotografia, è opportuno ricordare in questa cronaca che a quel tempo, a Roma, il ritratto della bella Sofia era assai ricercato e in città circolavano molte "carte de visite", che la ritraevano in pose e abbigliamenti vari e anche stravaganti, come scrive Louis Delatre nei suoi "Ricordi di Roma", quando afferma che essa si prestava volentieri a quei capricci e ne nacque una serie interminabile di ritratti... Era vestita da artigliere, da marinaio da zuavo, da amazzone, da monaca, da borghese, da signora; a piedi, a cavallo, in tilburv; col fucile, col crocefisso, col frustino, col ventaglio" (ma dove sono conservate queste fotografie? n.d.a.). Delatre, quasi per giustificare l'esistenza delle fotografie oscene aggiunse che "insomma non mancava più che raffigurarla da Venere o da Eva... "Un fotografo anonimo non si peritò di colmar tal lacuna precisa infatti Delatre, e "fece la regina in Venere del Tiziano circondata da cardinali, da monsignori e da guardie nobili che le presentavano i loro omaggi. Il Papa, in fondo, dava a tutti l'apostolica benedizione". Il "fotografo anonimo", secondo il Comitato Nazionale Romano e, in un primo tempo, anche per convinzione della polizia pontificia, sarebbe stata Costanza Diotallevi, oppure suo marito, che avrebbe utilizzato la moglie come modella, essendoci, si assicurava una notevole somiglianza fisica tra Costanza e Maria Sofia di Borbone. Ma Costanza Diotallevi, nelle sue "rivelazioni", offri altre versioni, per scagionarsi, coinvolgendo nel contempo diversi fotografi romani, sia pure indirettamente, tra cui addirittura don Antonio D'Alessandri (1818-1893) che, assieme al fratello Paolo Francesco, aveva uno studio, prima in Via del Babuino 65 e quindi in Via Condotti, 61-63 ed era "fotografo pontificio"' il nome del D'Alessandri, scrive però Silvio Negro, che si è occupato in varie occasioni dell'affaire Diotallevi, "si trovò senza colpa mescolato nello scandalo fotografico verificatosi ai danni della Regina di Napoli, esule a Roma, la bellissima Maria Sofia...", in quanto i due fratelli D'Alessandri avevano "la privativa dei ritratti di Pio IX e della Corte papale e furono anche i fotografi dei Borboni a Napoli esuli a Roma dopo il '61... Costanza, come si legge più precisamente nel suo racconto, indica quale autore di una parte delle fotografie incriminate (i fotomontaggi), un certo Belisario Gioia "ritoccatore nello studio D'Alessandri in via Condotti, che è quello che ha fatto tutti i ritratti della regina e ne ha privativa", che avrebbe prelevato alcune copie delle immagini di Sofia e da esse tagliato "la testa a quella che sta in volgimento a destra a mezzo profilo e a grandezza normale", provvedendo a "copiarla ed attaccarla poi al corpo pur copiato e decapitato della modella". (La fotografia della modella nuda, sempre secondo Costanza, sarebbe invece stata sottratta dallo studio del fotografo "Mariannecci al Babuino "). Questo Belisario Gioia, dunque, risulterebbe tra i primi autori di fotomontaggi politici, ossia l'Heartfield della Roma papale, ma non vi é purtroppo nessun'altra traccia della sua esistenza, se si esclude questa descrizione di Costanza, che offre comunque altre indicazioni sulla tecnica usata, precisando che "il detto Gioia ritoccò il tutto perché non si conoscesse l'attaccatura". La regina, in uno di questi fotomontaggi, continua Costanza, é raffigurata "in piedi, ignuda totalmente, con le mani, che l'una tiene l'altra al basso ventre, e Goyon alla borghese che la sta guardando", dove evidentemente era stata utilizzata nella composizione a collage, una fotografia di repertorio del generale. Costanza Diotallevi risultò coinvolta anche in questa faccenda, perchè sua sarebbe stata la macchina fotografica che, lei stessa confessò, "si trovava di aver prestata a Catufi, il quale l'ha tuttora; ed appunto non me ne rifiutai perché volevo conoscere minutamente il tutto per il fine che mi ero"; ossia di fare la spia per conto del De Goyon. Quanti fotomontaggi vennero in effetti prodotti e diffusi? Costanza affermò che di quello descritto "ne hanno fatte più produzioni", pur ritenendo "che non siano state pubblicate se non dentro Roma", mentre di "un altro fatto in simile positura sostituendo però al generale De Goyon l'Eminentissimo Antonelli...", non seppe indicare quante copie vennero fatte, perche quando fu arrestata "stavano lavorando". Il fotografo Gioia finì naturalmente in carcere assieme a molti altri, tra cui Domenico Catuffi ("pittore di quadri" in vicolo del Vantaggio 8), Antonio Marianecci e Achille Ansiglioni, fratello di Giuliano, fotografo attivo in Via del Corso 150, che venne però a sua volta compromesso dalle dichiarazioni di Costanza, come si rileva dal suo racconto, che riportiamo più avanti integralmente, dove si fa ampia luce sul contenuto delle immagini in questione, per le quali forse era stata la stessa Costanza, come s'è detto, a far da modello, invece della giovane "scuffiara", sosia di Sofia, che non venne mai rintracciata Nella complessa vicenda fu coinvolto, come fotografo, anche monsignor Filippo Bottoni, che venne arrestato per aver eseguito fotografie pornografiche, a suo dire realizzate come innocenti studi di nudo, per conto di alcuni pittori; "al Cardinale Vicario di Roma", scrisse così allora nella sua deposizione mons. Bottoni, "giustamente inquieto per le fotografie oscene che erano in giro per la città, nelle quali veniva offesa l'onestà della Sacra Persona del Santo Padre e della ex Regina di Napoli, era stato riferito esservi un prete dilettante di tali schifose operazioni...". Comunque, Costanza Diotallevi, nel secondo atto di questa tragicommedia, diede sfogo alla parola, forse anche alla fantasia, durante la "rivelazione impunitaria", e così spiegò al Processante, per filo e per segno, come si erano svolti i fatti di cui era a conoscenza: "Sappia adunque che il partito divisò di fare ingiuria alla corte di Napoli col ritrarre in mosse le più oscene la regina, ed ecco come si principiò a dare esecuzione all'iniquo divisamento. Evvi una giovane scuffiara, romana per quanto credo di nascita, dell'età di circa vent'anni, che nei primi dì del gennaio 1862 lavorava come giovane presso la cuffiara al pozzo delle Cornacchie, e che, dopo aver cercato di prender con essa entratura ordinandole un cappello di scudi 5 che inutilmente ho atteso, non ho potuto più sapere ove sia andata, e non mi si é voluto dire né dalla cuffiara né dalle altre giovani ove sia ed ove dimori. Questa giovane che somiglia quasi alla perfezione, fu chiamata da... (i puntini sono nel testo originale, n.d.a.) Deangelis della Manziana: portata a casa sua, sotto pretesto di far cappelli alla sua amica che tiene, e per la quale ha abbandonata la famiglia, ebbe dallo stesso Deangelis da prima scudi 100, con la qual somma dopo tante renunzie, condiscese a farsi ritrattar nuda con la fotografia quattro volte, ossia si stabilì dovesse stare a quattro pose di diverso atteggiamento sempre perfettamente ignuda. Fu ritratta nella stessa camera del Deangelis dall'ottico Ansiglioni padrone proprio del negozio al Corso (il corsivo è nel testo originale, n.d.a.), uomo grasso, basso, rosso, di circa anni 35, fratello di Achille Ansiglioni su nominato. Domenico Catufi poi fu quello che incollò nei cartoni e ritoccò le negative del ritratto. Ne tirarono circa 60 copie, delle quali 15 ne furono mandate a Torino, 10 a Parigi, a mezzo di spedizione qui fatta a Terni a Pietro Patrizi, mentre esso ha trafile certe di corrispondenza; per Roma ne furono mandate una trentina e ne spedirono, credo, per la posta un esemplare al re di Napoli e forse anche all'Eminentissimo Antonelli, e al General francese. Uno degli atteggiamenti era totalmente ignuda, seduta semisdraiata in una poltrona, con la mano alla natura in atto di far ditali avente in prospettiva di essa i ritratti di Sua Santità, del signor Generale, dell'Eminentissimo Antonelli e dell'ufficiale de' zuavi De-Castro. La seconda posizione rappresentava la regina ignuda al bagno in una bagnarola rotonda sulla quale galleggiavano membri umani di tutte le proporzioni quali essa andava accarezzando. La terza si vedeva ignuda, lunga sopra un sofà, avente sopra in atto di coito uno zuavo in modo da non vedersi il volto, e si divulgò essere quello De-Castro ufficiale dé zuavi; sotto poi a questa esposizione leggevasi in lingua spagnuola "Tomes sit gigar" (prendete questo zigaro). Gli posero questa espressione, perché al dir di essi, stando in un giorno De-Castro dal re dopo il pranzo, nel dare un sigaro alla regina così si esprimesse e che nel riceverlo le stringesse la mano; del che accortasene la regina madrigna facesse chiassi, e che irritata la regina giovane di ciò, prendesse un pizzo della tovaglia e mandasse in guasto la tavola; ciò che ha riferito un giovane da me sconosciuto, ma che la corte chiama sempre in aiuto dei camerieri per servire a tavola, e che vi fu a servire anche all'occasione che fu a pranzo dal re di Napoli Sua Santità. Questo birbante seppe dire perfino che Sua Santità si era ubriacato, appoggiando che questa era la sborgnia del giorno avanti allorché Sua Santità si svenne dicendo o assistendo messa la terza festa di Pasqua 1861. La quarta posizione rappresentava la regina sempre ignuda in un sofà mezza addormentata, e Sua Santità che sta per entrare nella porta che vedesi traschiusa, ed il Generale francese in distanza vestito però alla borghese che segue Sua Santità. Debbo avvertire che dopo tali ritratti, la giovane é svanita da ogni mia ricerca. Hanno voluto far nuove ingiuriose produzioni; ma non essendo reperibile la detta giovane cuffiara, hanno per farle presa una copia di modella che esisteva nello studio da fotografo di Mariannecci al Babuino, e questa copia fu comprata da Achille Ansiglioni ….". Questa é la efficace descrizione dettata da Costanza Diotallevi, circa alcuni tra i più antichi falsi della storia della fotografia, utilizzati allora dai "piemontesi" in un'operazione politica, che mise però a rumore, non tanto il disattento popolino romano, quanto le Corti europee, dove appunto vennero inviate le verosimili immagini, credibili quel tanto che la fotografia lascia intravvedere, comunque sufficiente, anche per i sottintesi, a gettare maliziose ombre di sospetto sul comportamento di Maria Sofia, e certamente valide invece, per la loro formulazione satirica, a ridicolizzare, demitizzare, e "castigare" infine, la perduta regale dignità. "Le rivelazioni della Diotallevi", specialmente quelle relative al programma di attentati alla persona fisica e non soltanto morale degli ex regnanti napoletani, commenta il De Cesare, "portarono radicali mutamenti nelle abitudini dei sovrani di Napoli... La Regina al Pincio andò di rado, né scese più dal legno, ed ai teatri fu meno assidua; e disgustata di tutto quanto era avvenuto, non ebbe che un solo pensiero: lasciare Roma". Maria Sofia, con la sua Corte, partì per la Baviera nel maggio del 1862 e ritornò a Roma soltanto nel 1869, a Palazzo Farnese, "rinunciando al pensiero di chiudersi in un Monastero", il re aveva a quel tempo solo trent'anni e la regina ventisette... Nell'ultimo atto di questa vicenda, il sipario si alza ancora dinanzi ai coniugi Diotallevi che, "dopo pochi mesi, con grande meraviglia di tutti e sdegno della corte di Napoli", vennero messi in libertà e ottennero inoltre un assegno mensile di quindici scudi da Monsignor de Meroe, che acquistò nel contempo i compromettenti biglietti amorosi indirizzati dal generale De Goyon, alla bella e pentita "fotografa" Costanza. Nel 1866 Costanza tornò ad essere presente nelle cronache del Sant'Uffizio, al quale si era decisa nel frattempo "a fare una spontanea" (una dichiarazione sotto il suggello della confessione), riconoscendo di aver asserito il falso, "ma di esservi stata indotta da un fine nobile e onesto, quello di difendere il Papa e la Sede Apostolica dai nemici; di aver errato, ma in buona fede". De Cesare precisa che tale confessione non poteva essere da altri utilizzata essendo stata fatta con procedura del giuramento e del segreto; Costanza Diotallevi infatti, "non ebbe a soffrir nulla e continuò a riscuotere la pensione anche sotto il Governo Italiano" Le "ignobili" fotografie di Maria Sofia (ottenute sul corpo della misteriosa "scuffiara", o su quello della bella Costanza?), scomode in effetti a entrambi le parti politiche, vennero distrutte, oppure occultate nel segreto degli archivi, ad eccezione di qualche analogo esemplare, come le due immagini riportate da Gilardi nella sua "Storia sociale della fotografia", che però sono diverse da quelle descritte da Costanza e risultano disegnate. Non dimenticarono comunque alcuni romani, le innumerevoli denuncie fatte da Costanza durante la sua "rivelazione impunitaria", e il 20 settembre 1870 l'aggredirono in una piazza, dove venne a stento sottratta dalle ire popolari; qualche anno dopo Costanza "tornò in carcere per reati comuni" e venne riconosciuta (la data non é indicata dal De Cesare, ma dovrebbe essere in un anno sul finire del secolo), dal deputato municipale Domenico Ricci, durante una visita alle carceri del Buon Pastore, "né altro si sa di lei". Venezia, aprile 1982 (per gentile concessione di Fotologia, editrice Alinari, Firenze).

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