LA LEGGENDA DELLE STREGHE

Perichle Fazzini

danza delle streghe intorno al noce di Benevento

In una notte di luna piena dell'anno 590 (o forse del 591), nella valle del fiume Sabato, poco distante dal lento scorrere delle sue acque e dalla città di Benevento, centinaia di fiaccole accese si muovono intorno ad un albero, un noce secolare posto al centro di una ampia radura. Quà e là fuochi di campo, alimentati con vigoria, sprizzano scintille ed accendono l'atmosfera già calda e selvaggia del raduno. Zottone, il Duca, è morto. Il suo corpo, composto da guerriero nell'armatura da battaglia, è là sul feretro in attesa di essere inumato con le sue armi, con il suo cavallo ed i suoi cani da caccia. Quella notte i guerrieri longobardi, nobili e plebei, festeggeranno in suo onore, danzeranno e si ubriacheranno di birra, la cervogia, o della forte bevanda locale, il vino, preparando la strada al loro duce per il paradiso di Wotan, l'empireo dei guerrieri germanici nel quale Zottone il Longobardo continuerà a vivere e guerreggiare, tra walchirie pro-sperose e battute di caccia al cinghiale. Il campo è pieno di guerrieri, di aldi e di servi.

Quà e là sacerdotesse fornite di spirito sacro e profetico, adorne di monili e bracciali serpeggianti, danno consigli e responsi, mentre i servi apparecchiano ed infilzano sugli spiedi i maiali da arrostire ed altri spillano birra e vino dalle botti rotolate li fin dal mattino. Uomini in armi, lucenti di sprazzi di luna nelle armature lamellari che coprono tutto il corpo, divise in due parti come fossero vesti, stanno in cerchio intorno ai fuochi osservando i sacrifici ed i giocolieri e scolando corno su corno di birra; calice su calice di vino, mentre le fiamme giocano sui loro volti, riflettendoli e spiccandoli nell'oscurità. Gli alti elmi di ferro, sormontati dalla calotta semisferica e dal cimiero di coda di cavallo, sono a terra, di fianco ai guerrieri che mangiano e bevono in maschia baldoria. Qualcuno, più brillo degli altri, dà spettacolo di abilità ruotando nell'aria la grande spada a due tagli, contro un nemico invisibile nell'oscurità, oppure saettando con maestria le sue frecce verso le pelli di montone appese, a mò di bersaglio, ai rami del noce sacro. I servi latini corrono di quà e di là agli ordini imperiosi dei guerrieri e le skalks, le schiave, subiscono le carezze violente dei padroni, senza potersi ribellare al clima orgiastico e scatenato della notte. Al culmine dei bagordi le sacerdotesse chiedono il silenzio e si avvicinano con fare ieratico all'albero sacro, per compiere gli ultimi sacrifici in onore del nobile Duca. Il noce, per i popoli nordici, è l'albero più redditizio. Lassù al Nord, come la quercia, esso dà il legno per le panche, per gli scudi e per le lance. Il suo frutto è un cibo di riserva per il rigore invernale; il suo olio serve per le lucerne e per il condimento; il suo mallo per le tinte indelebili. Un'antica saga longobarda canta di Ulrico ed Hanna che si rincorrono "... dietro l'ombra di un noce, in un verdeggiante pratello...". Ritrovare lo stesso albero, nella nuova patria, per i Longobardi fu un segno divino ed intorno ad esso si raccolsero in tutte le occasioni opportune, come quella di salutare per l'ultima volta di capi delle Fare, i nobili guerrieri ed i capi clan.

Come questa notte, dedicata al loro condottiero Zottone. Al momento giusto il silenzio viene imposto: gli officianti, con colpi precisi dell'affilato pugnale germanico, il sax, sgozzano il cavallo del defunto ed i suoi cani preferiti per affidarli allo stesso tumulo del padrone, e nell'aria si diffondono, laceranti, nitriti e guaiti di dolore.

Come un segnale donne e uomini longobardi si lanciano intorno ai fuochi nelle danze di rito, in giravolte e scuotimenti, in grida euforiche ed animalesche mentre, intorno al primitivo altare eretto sotto l'albero ai numi del Walhalla, le sacerdotesse urlano con voce stentorea per invocare gli dei, contorcendosi ed inchinandosi, ebbre di ieratico furore pagano, reso più mistico da litri e litri di alcoliche bevande. Da lontano, dai colli circostanti, i coloni latini assoggettati ed i pii eremiti delle grotte del Taburno, con animo terrificato si segnano con la croce scorgendo, al chiarore delle luna e delle faci resinose, quella sarabanda indistinta; sentendo le pendici e le valli echeggiare del nitrito dei cavalli morenti e dei guaiti dei cani, insieme agli urrà degli arimanni ebbri di carne e di cervogia, ed al sordo rumore degli zoccoli di cavalcate notturne, di quà e di là del campo. I poveri cattolici che, sbigottiti, da lontano osservarono queste scene mai viste, le ritennero apparizioni demoniache e periodiche, atteso che si ripetevano ogni qualvolta un barbaro di una qualche importanza moriva. Così si convinsero che le notturne danzatrici cariche di bracciali dorati, spiraliformi e sinuosi, in quelle notti di tregenda avessero commercio con i demoni le cui fronti cornute apparivano qua e là, tra i rami fronzuti del noce pagano e sotto forma di una vipera maledetta [da: "ARECHI PRINCIPE LONGOBARDO E DUCA DEI SANNITI" di M. P. CAVALLUZZO & B. FUSCO, Piesse Foglianise, 1999]